“Peter Parker era il mio eroe. Quel caruso un po’ minchia di mare, pigghiato po’ culu dai suoi compagni di scuola (un po’ come ammia, ’nzomma) (…) che riceve grandi poteri e grandi responsabilità dal morso di un ragno (…) e che diventa eroe pecché ci ammazzano so’ ziu. Ora: io ero solo un po’ minchia di mare, non avevo grandi poteri e purtroppo mio padre non era morto”.
Davide Buscemi vive nella borgata popolare di una piccola città siciliana, una provincia avvolta nei suoi miseri rituali: la processione dell’Addolorata, la gara di sosia di Raffaella Carrà, le sanguisughe per i salassi, la perdita della verginità con le prostitute del lungomare. Sullo sfondo delle liti in famiglia, dei disastrosi pranzi con i parenti ricchi, delle corse in “Califfo”, il motorino, dei tentativi d’imitare Peter Parker, scorre la cronaca degli anni di piombo (l’uccisione di Moro, quella di Pasolini, l’assoluzione di Freda), ma non mancano riferimenti più leggeri; una provincia in cui l’attualità degli anni Settanta filtra attraverso la televisione e i giornali ma rimanendo in sottofondo, mai protagonista.
In “Minchia di mare” (Elliot), di Arturo Belluardo, Davide è il nostro “eroe narrante”, un bambino prigioniero: di un’infanzia che sembra non finire mai, della vita degradata della periferia, di un padre violento, professore comunista e gran puttaniere che lo considera senza spina dorsale, un buono a nulla, una “minchia di mare”, il cui passaggio dall’infanzia all’adolescenza è costellato da goffi tentativi di fuga dai risvolti grotteschi culminati con l’ingloriosa fine del padre e la storia dello scaldabagno, rubato insieme a lui, per sfregio, in cambio di una sfumata eredità. Arturo Belluardo, in “Minchia di mare” (Elliot) orchestra un continuum di episodi che si susseguono senza ordine cronologico, raccontati con la musicalità della lingua siciliana, un po’ alla Camilleri, ma non troppo; quasi come se non si potesse parlare, o meglio, scrivere della Sicilia in italiano. “Minchia di mare” nasce per essere un vero e proprio scavo agrodolce dell’archeologia sentimentale di un’anima delicata, raccontata tra comicità e tragedia, sicuramente in modo originale: fatto di risate, amare nel senso più estensivo del termine, che sgorgano dal più disgustoso sberleffo. Un romanzo che personalmente ho fatto fatica ad inquadrare e che mi ha lasciato con “l’amaro in bocca”: ma forse era proprio questo l’obiettivo.
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