Cinema

Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus. Recensione del biopic

Uscito nel lontano 2006 e basato sul romanzo “Diane Arbus” di Patricia Bosworth, Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus” è un biopic che porta la firma registica di Steven Shainberg, vede come protagonisti Nicole Kidman e Robert Downey Jr. La pellicola parla della vita quotidiana dei coniugi Diane e Allan Arbus, con un focus sulla figura di Diane, divenuta, a partire dagli anni Cinquanta, una delle più celebri e innovatrici fotografe di tutti i tempi.

Fur – Un ritratto immaginario di Diane Arbus inizia in un modo davvero spettacolare (i titoli di testa scorrono tra lunghe ciocche ondulate di capelli castani) e si basa su un lungo flashback. All’inizio una giovane donna si reca in una tenuta dove incontra una comunità di nudisti. È stata infatti contattata dai proprietari per eseguire degli scatti, ma a una condizione: deve spogliarsi e “confondersi” tra la folla esattamente come loro, senza provare alcun tipo di imbarazzo. Poco prima di congedarla la padrona di casa nota un ciondolo al collo della fotografa, lei le confessa malinconicamente di averlo ereditato molto tempo prima.

Essere donna negli anni Cinquanta significava essere prima di tutto un’ottima madre, ovviamente casalinga. Non a tutte le donne, infatti, capitava di poter evadere dalle mura domestiche, anche solo per andare a lavorare. Poche erano invece quelle che potevano permettersi il lusso di non uscire di casa per andare a lavoro, perché era il lavoro a venire da loro. Questo era il lusso di Diane Arbus e suo marito Allan, che avevano uno studio fotografico dentro casa e collaboravano con alcune delle più celebri riviste di moda statunitensi.

Innamorata persa di suo marito – che l’aveva realmente iniziata al mestiere di fotografa – Diane è tuttavia irrequieta. Alla sua routine quotidiana manca qualcosa. Pur essendo leggermente più emancipata di molte altre sue simili, non è libera di operare solo in suo nome; la figura del marito, del resto, è prorompente (basti pensare che il suo vero cognome era “Nemerov”, perché Diane era figlia di ebrei russi emigrati a New York).

Un giorno fa la conoscenza di un nuovo inquilino che occupa l’appartamento della soffitta del condominio in cui abita, anche se non lo vede mai in volto. Il primo vero contatto avviene quando Diane decide di parlare a questo anonimo vicino di casa (che si chiama Lionel Sweeney) chiedendogli di potergli fare un ritratto. Inizia così un’avventura dai toni quasi surreali in cui Diane viene condotta in un mondo “invisibile”, che in realtà è più concreto di quel che lei stessa può immaginare, accompagnata dalla presenza – prima inquietante ma in seguito imprescindibile – di un uomo bizzarro ed enigmatico come Lionel.

Se fosse stato girato in bianco e nero, probabilmente, questo film non avrebbe reso l’atmosfera “vintage” di quell’epoca tanto paradossale come gli anni Cinquanta. Il filo conduttore – le pellicce indossate dalle modelle fotografate dagli Arbus e qualsiasi altra forma di “peluria” – non sarebbero stati così enigmatici, pur essendo elementi ovvi: tutti noi ci tocchiamo spesso i capelli o indossiamo folte pellicce in inverno. Eppure, come già preludono i titoli di testa, questa è una storia in cui niente va dato per scontato. A partire dalla “funzione sociale” di una donna all’interno di un matrimonio fino all’amicizia tra un uomo e una donna sconosciuti, ma non per questo estranei ai propri sentimenti.

La fotografia rende bene la presunzione di conoscere se stessi, e pensare che le cose vadano in un’unica direzione, facendo leva su giochi di prospettiva che si creano con inquadrature piuttosto insolite. Spesso l’obiettivo (e quindi lo sguardo di noi spettatori) coincide con alcuni oggetti, come i fori di un citofono oppure il buco di una serratura. Il fischio di una teiera sul fornello piuttosto che una maschera grottesca, da oggetti apparentemente privi di una unicità, diventano il fulcro di un’intera sequenza. Insomma, così come il vivere quotidiano di Diane si rinvigorisce giorno dopo giorno, anche le cose che lei tocca o beve diventano quasi magiche, perché magica sarà la sua vita dopo una sorta di risveglio spirituale ed esistenziale.

Un nuovo “capitolo” che solo una donna sofferente e abituata alle rinunce può capire meglio di chiunque altro.

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