Serie TV

Unorthodox, la miniserie ispirata a una sconvolgente storia vera

Ci sono davvero tantissimi motivi per non perdersi su Netflix la miniserie in quattro puntate “Unorthodox”, uno di questi è perché è una storia vera, o meglio ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman: “Unorthodox: the scandalous rejection of my hasidic roots”. Questo spaccato di vita mostra quello che succede nella riservatissima comunità chassidica Satmar, movimento di massa ebraico basato sul rinnovamento spirituale dell’ebraismo ortodosso, di cui probabilmente molti di noi conoscono molto poco o addirittura ignora l’esistenza.

Scopriamo questa comunità di New York, nel quartiere Williamsburg di Brooklyn attraverso Esther “Esty” Shapiro, la 19enne protagonista della storia, interpretata dalla bravissima Shira Haas, un altro motivo per guardare la serie, lei è straordinaria e attraverso la sua recitazione trasmette tutte le emozioni che attraversa.

La prima associazione che ho fatto vedendo lo stile di vita di questa comunità, attualmente attiva, è stata con il romanzo distopico The Handmaid’s Tale, (diventato anche una serie di successo), il romanzo è ambientato in quella Gilead così spaventosa, dove è proprio la figura femminile a perdere tutti i diritti e così succede a Williamsburg dove le donne perdono la dignità, il diritto all’istruzione, alla lettura, alla scelta, al lavoro, alla libertà, anche l’aspetto fisico è governato da precise regole al fine di rispettare gli standard di umiltà e modestia, per esempio, gambe e braccia devono sempre essere coperte, mentre i capelli vengono rasati e protetti da una parrucca (la Sheitel) o un copricapo. Tutti questi elementi fanno subito capire la chiusura e la restrizione a cui viene sottoposta la comunità, che segue le regole dal Talmud alla lettera e dove le donne vengono date in spose dopo essere state purificate per compiere il senso unico alla loro esistenza: diventare madri. Religione, uomini al comando, donne sottomesse e ridotte a puri corpi senza voce.

È tutto molto simile a quello che abbiamo letto dalla Atwood, spaventandoci davanti a un possibile futuro che potrebbe riguardarci, senza sapere, o renderci conto, che proprio a fianco a noi esistono comunità dove le donne subiscono questo inferno e vivono in modo molto simile. Guardare questa miniserie fa immergere in una realtà davvero sconvolgente, sembra quasi di vedere un film storico ma è assolutamente attuale.

È proprio in questa circostanza di assoluta privazione che incontriamo Esty e il suo disagio interiore per un mondo che sente non suo, la sofferenza per il percepirsi “diversa”, il suo senso di inadeguatezza e stordimento per non capire come mai lei non è come le altre. Così, dopo il matrimonio combinato con Yanki, giovane studioso del Talmud, si ritrova ancora più in gabbia: la pressione sociale dell’aver figli, il terribile rapporto coniugale che rende infelici entrambi e la difficoltà a concepire un bambino, portano la ragazza a scappare a Berlino dalla madre, anch’essa allontanata dalla comunità.

Inoltre, una scelta davvero straordinaria fatta dalle sceneggiatrici Anna Winger e Alexa Karolinski è stata quella di usare quasi totalmente in lingua yiddish, è la prima volta che questo dialetto arcaico “giudaico-tedesco” viene parlato in una serie.

Una precisazione importante da fare, la scrittrice è stata coinvolta nella progettazione della serie ma non è la sua storia completa, infatti tutti i flashback riguardano le vicende reali vissute dalla Fieldman all’interno della comunità, il racconto diventa così una testimonianza fedele della vita passata che sembrano quasi appartenere a un’altra epoca storica, mentre le scene di Berlino sono interamente inventate dalle produttrici, questo ha aiutato a dare un forte senso di contrapposizione. Infatti, nella storia reale non è presente la capitale tedesca, ma in questo contesto si rende metafora necessaria a dare un messaggio. La Germania viene vista come una terra densa di ricordi dolorosi, ma se durante la shoah il viaggio salvifico era verso l’America, qui si tratta dell’opposto, per salvarsi Esty torna proprio a Berlino, scoprendo una città accogliente, moderna e artistica, lontana dall’immaginario tramandato.

Questa antitesi con la modernità berlinese e la vita a Williamsburg sono fondamentali e straordinarie per la comprensione dello spettatore, appaiono così ancora più stridenti i due mondi paralleli, come il divieto di usare la tecnologia che sembra quasi paradossale, ci si stupisce che a oggi un giovane non abbia idea di come interagire con uno smartphone o con Google.

Questa serie è un continuo di balzi temporali, che sembrano avanti e indietro nel tempo di tantissimi anni, quando invece si tratta di epoche contemporanee, il tutto succede nel giro di pochi anni, a darci questa sensazione di distaccamento dalla società moderna è sicuramente l’episodio del matrimonio tra Esty e Yanki in cui tutto segue fedelmente il rituale chassidico: uomini e donne separati, la cena degli sposi isolati dal resto del banchetto, la lunga cerimonia religiosa, i pesanti copricapi maschili in visone. Una sequenza straordinaria girata in due giorni con oltre 100 comparse, forse una delle sequenze più grandiose di sempre e anche solo questo passaggio vale tutta la serie.

Ma forse quello che la rende davvero straordinaria è il messaggio alla base, che non vuole essere semplicemente la ribellione di una ragazza ebraica al sistema che le sta troppo stretto, ma il lento, difficile e doloroso percorso interiore necessario per la propria emancipazione, pieno di compromessi, sacrifici e rinunce. Per arrivare a essere sé stessi non è detto che basti solo deciderlo, bisogna affrontarlo.

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