Cinema

Jojo Rabbit, nella tana del coniglio con Hitler. Recensione

Dai tempi de Il grande dittatore di Chaplin, i registi hanno adottato prospettive ingenue o comiche per rompere e sgonfiare l’orribile bolla dell’ideologia nazista – una strategia rischiosa che può raccogliere ricche ricompense.

Nel classico Per favore, non toccate le vecchiette del 1967, Mel Brooks fece della brillante comicità dal fantasma di una terribile commedia che celebrava le poco conosciute abilità di danza di Hitler.

Il film vinse un Oscar per la migliore sceneggiatura e generò un musical di successo che a sua volta produsse un altro adattamento per lo schermo pieno di star. Nel 1999, la commedia drammatica La vita è bella di Roberto Benigni vinse tre Oscar con la sua rappresentazione di un uomo la cui comicità esagerata riesce a tenere nascosti al figlio gli orrori di un campo di concentramento.

Ora, in questo adattamento nominato ai Golden Globe del libro Caging Skies di Christine Leunens, lo scrittore-regista-performer neozelandese Taika Waititi interpreta una versione canzonatoria e ridicola di Hitler, capace di esistere nella mente di un bambino tedesco, Jojo.

Roman Griffin Davis interpreta il bambino di 10 anni che cresce sotto i dettami del Terzo Reich, i cui allegri sogni di diventare un eroe di guerra ariano sono ostacolati dalla sua innata sensibilità e timidezza. Soprannominato Jojo Rabbit dopo aver fallito nello strangolare un coniglio quando gli è stato ordinato di farlo in un campo di addestramento giovanile nazista, il nostro antieroe si fa prontamente esplodere con una granata a mano, rendendolo inadatto al combattimento.

Gli vengono così assegnati compiti più umili, tra cui distribuire volantini di reclutamento, spronato dalle visioni del suo amico immaginario Führer.

Sotto lo strato indotto del fanatismo, Jojo è un ragazzo spaventato la cui sorella è morta e il cui padre è scomparso in battaglia. Ma sua madre, Rosie (Scarlett Johansson), ha un segreto: è un’antifascista segreta che nasconde una ragazza ebrea, Elsa, in soffitta.

Quando Jojo si imbatte in Elsa, inizialmente è inorridito, credendola un mostro. Ma a poco a poco i due instaurano un rapporto di amore-odio che fa infuriare l’immaginario Adolf e induce Jojo a riconsiderare la sua fedeltà.

Dalle prime scene che alternano audacemente filmati di “Il trionfo della volontà” con i brani della Beatlemania tedesca di Komm, Gib Mir Deine Hand (altre melodie pop giocosamente anacronistiche includono I Don’t Wanna Grow Up di Tom Waits e Helden di David Bowie), agli intermezzi successivi in cui l’immaginario Adolf si comporta più come uno scolaretto petulante che come un dittatore assassino, Waititi si sforza di catturare il punto di vista del giovane Jojo.

C’è una lontana eco con “Il bambino con il pigiama a righe“, un altro film che guardava gli orrori del nazismo dalla prospettiva dei bambini. Ma l’adattamento di Mark Herman del romanzo di John Boyne aveva un programma molto più chiaro, che non lasciava dubbi al pubblico sullo scopo del dramma.

In un’intervista di Waititi avvenuta verso la fine del 2018, ha descritto Jojo Rabbit (che allora era ancora in fase di produzione) come una “strana commedia dell’arte” che si avventurava in “acque pericolose”. In effetti, senza averlo visto più solo lasciare del senso di stranezza e dubbio.

Quel senso di dubbio non è stato dissipato a film finito, che, anche se chiaramente sincero nelle sue intenzioni, particolarmente divertente nelle parti iniziali e con un buon focus sul punto di vista, non è abbastanza acuto né divertente da arrivare al cuore del suo argomento.

Mentre il gioiello del 2016 Selvaggi in fuga di Waititi ha trasformato il romanzo Wild Pork and Watercress di Barry Crump in una miscela perfetta di commedia sullo schermo, tragedia e pathos, Jojo Rabbit fatica a raggiungere lo stesso intreccio senza soluzione di continuità di luce e buio.

Non è solo che la voluta interazione tra corruzione e innocenza non riesce a colpire quel momento ideale attraverso la quale la grande arte può trasformare la materia indicibile in qualcosa di magicamente accessibile; è piuttosto che il tono generale rasenta troppo spesso l’insipido – un difetto che nel complesso può risultare fatale.

Ci però anche tanti aspetti positivi. Sam Rockwell è brillante nel il ruolo del capitano Klenzendorf, un aspirante soldato ubriaco allontanato dal campo di battaglia per la perdita di un occhio, ora apparentemente rassegnato all’assurda e umiliante sconfitta; e McKenzie riesce a iniettare un senso di necessità nel ruolo chiave di Elsa, anche quando la sceneggiatura le dà poco spazio.

Capisco che l’atmosfera stranamente bonaria del film possa conquistare i cuori di molti spettatori, è difficile non farsi coccolare da questo film che ti fa capire chiaramente come possa essere difficile per un bambino distinguere il bene e il male, ma soprattutto come ideologie degli adulti si riversino in modi completamente unici nelle menti dei bambini.

Appena finito Jojo Rabbit si ha la percezione che tutti i pezzi siano tornati al loro posto, è solo col passare ripensandoci a posteriori che ci si rende conto del poco coinvolgimento emotivo che, stranamente, avrebbe dovuto esserci.

Si rimane un po’ troppo confusi dal suo approccio irregolare e stranamente indeciso per abbracciare qualsiasi virtù eccentrica possa possedere.

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