The Life of Chuck, Mike Flanagan porta Stephen King al cinema con un racconto tra vita e apocalisse
Un film intenso e malinconico, che intreccia l’esistenza di un uomo comune con l’ombra della fine del mondo.
Mike Flanagan, già noto per aver trasposto con successo alcune delle opere più inquietanti di Stephen King, torna al cinema con The Life of Chuck. Il regista americano abbandona i consueti toni dell’horror soprannaturale per esplorare un territorio più intimo e filosofico, dando vita a un film che sorprende per la sua profondità e per la capacità di alternare emozione e inquietudine.
Al centro della storia c’è Chuck, interpretato da Tom Hiddleston, un uomo apparentemente ordinario la cui esistenza diventa la lente attraverso cui osserviamo il declino del mondo. La pellicola si muove su un terreno insolito per King: meno spettri e mostri, più ombre interiori e riflessioni sul senso del vivere, sul tempo che scorre e sulle connessioni umane che resistono persino davanti all’apocalisse.
La struttura narrativa si sviluppa in tre capitoli, riprendendo fedelmente la novella contenuta nella raccolta Se scorre il sangue. Ogni parte porta lo spettatore sempre più vicino al cuore della vicenda, ma anche alla fine di un mondo che sembra spegnersi insieme al destino del protagonista. Flanagan sceglie di non forzare l’impatto visivo con effetti spettacolari, preferendo un approccio minimalista e carico di suggestioni.
A rendere ancora più intensa l’esperienza è il cast corale, che oltre a Hiddleston vede la presenza di Mark Hamill, Chiwetel Ejiofor e Karen Gillan. Ognuno contribuisce a costruire un mosaico di personaggi che incarnano speranze, paure e rimpianti di un’umanità sospesa tra la vita quotidiana e l’incombente catastrofe.
Una distopia esistenziale più che un horror
Flanagan rifiuta l’etichetta di semplice adattamento horror e costruisce un film che si avvicina piuttosto alla distopia esistenziale. L’apocalisse non è spettacolarizzata ma insinuata nelle pieghe della quotidianità: città che si svuotano, notiziari che parlano di fenomeni inspiegabili, piccoli dettagli che compongono un mosaico di fine imminente.
Il vero fulcro resta però la vita di Chuck, raccontata a ritroso, come se il film cercasse di salvare i frammenti di un ricordo destinato a svanire. È un espediente narrativo che amplifica l’effetto emotivo e che rende la storia più vicina alla sensibilità del pubblico, invitato a riflettere su cosa resti davvero di noi quando tutto finisce.
Pregi e limiti di un adattamento complesso
Non tutto funziona alla perfezione: in alcuni momenti la lentezza del ritmo rischia di appesantire la narrazione, e la divisione in capitoli può apparire frammentaria. Tuttavia, l’approccio intimista e la volontà di esplorare i temi universali della perdita e della memoria fanno di The Life of Chuck un’opera insolita ma necessaria, capace di distinguersi nel panorama delle trasposizioni kinghiane.
Il film si rivela così una meditazione sul valore del tempo, sul significato delle nostre scelte e sull’impatto che lasciamo nelle vite altrui. Non un horror puro, ma un viaggio poetico e malinconico che mette al centro l’essere umano di fronte all’inevitabile.