Good Boy: l’horror soprannaturale che svela la mostruosità della solitudine moderna

Un thriller psicologico inquietante e sottile, dove la paura nasce dal bisogno disperato di connessione umana
Con Good Boy, il regista Viljar Bøe torna al cinema dell’orrore con una storia che unisce inquietudine, psicologia e satira sociale. Presentato alla festa del Cinena di Roma come un horror soprannaturale, il film si distingue per la sua capacità di trasformare una situazione apparentemente assurda in una riflessione cupa sulla solitudine contemporanea e sul confine labile tra amore e follia.
La trama segue Sigrid, una giovane donna che conosce un uomo affascinante e misterioso di nome Christian. Tutto sembra andare bene, finché lei non scopre un dettaglio sconvolgente: Christian vive con un “compagno di stanza” che indossa costantemente un costume da cane e si comporta come un animale domestico. Da qui, Good Boy si trasforma in una spirale disturbante di manipolazione e terrore psicologico, dove nulla è come sembra.
Il film non si limita a provocare paura con jump scare o effetti speciali: il vero orrore è quello emotivo, legato alla dipendenza, alla sottomissione e al bisogno di approvazione. L’ambientazione minimale e la regia precisa amplificano l’atmosfera di disagio, trasformando ogni gesto quotidiano in un atto inquietante.
Il risultato è un film tanto claustrofobico quanto seducente, che porta lo spettatore dentro un incubo di intimità e violenza psicologica.
Un horror che parla di noi
La forza di Good Boy sta nel suo simbolismo. Il “gioco” del cane e del padrone è una metafora evidente delle dinamiche di potere e controllo che regolano molte relazioni umane. Il film esplora la linea sottile tra consenso e coercizione, mostrando come il desiderio di essere amati possa trasformarsi in prigionia.
La tensione cresce senza mai esplodere in eccessi visivi. Ogni scena è costruita per mettere lo spettatore a disagio, costringendolo a interrogarsi su chi stia davvero manipolando chi. La recitazione è volutamente trattenuta, con toni freddi e distanti che aumentano la sensazione di alienazione.
Good Boy utilizza il linguaggio dell’horror per affrontare temi sociali contemporanei: la solitudine digitale, l’ossessione per l’immagine perfetta, il desiderio di controllo sugli altri. È un film che parla di mostri umani, non di fantasmi.
Un finale ambiguo e disturbante
Il film trova la sua massima efficacia nel finale, dove la realtà si mescola alla follia. Non ci sono spiegazioni definitive, solo una verità amara: ciò che spaventa davvero non è il soprannaturale, ma la dipendenza emotiva.
Viljar Bøe conferma la sua capacità di costruire tensione con pochi mezzi e grande precisione formale. L’uso delle luci fredde e del suono ovattato crea un’atmosfera costante di inquietudine, mentre il montaggio secco accentua la sensazione di irrealtà.
Good Boy è un horror intelligente e scomodo, che non punta agli effetti ma alla mente dello spettatore. Dietro la sua apparenza grottesca, nasconde una riflessione profonda sull’amore tossico e sull’incapacità di distinguere l’affetto dalla paura. Un film che non spaventa soltanto — ma mette a nudo, con crudele lucidità, la solitudine del nostro tempo.