Squid Game 3: il gioco è finalmente finito | l’ennesimo round che nessuno aveva chiesto

Squid Game 3: il gioco è finalmente finito
Squid Game 3 – fortementein.com

La terza stagione chiude la saga con più stanchezza che suspense, tra trame già viste, personaggi sacrificabili e un finale che arriva come un atto dovuto.

Il gioco è bello quando dura poco, eppure i games organizzati dal Frontman diventano sempre più lunghi. La prima stagione aveva conquistato tutti, dai ragazzini agli adulti, lasciandoci incollati a guardare uno sterminio umano come fosse una partita a carte, o appunto, al gioco del calamaro.

Ma alla fine dell’ultimo episodio ci rendiamo conto che non sarebbe finita lì, e a noi va anche bene: Seong Gi-hun vuole la sua vendetta personale, cioè un riscatto per rimettersi in pace con la coscienza. Ma a caro prezzo.

Il prezzo, questa volta, non sono i miliardi caduti nel grosso contenitore sferico, ma le persone di cui si circonda quando, nella seconda stagione, si trova nuovamente intrappolato nella scacchiera.

Gli episodi della seconda stagione si presentano come un prolungamento della prima, finché non arriva la rivolta, ma proprio quando speravi di arrivare al termine di questa lunga agonia, ecco che il proiettile non parte. Cambiano i personaggi, restano le stesse dinamiche. Ma se è vero che quando compare una pistola prima o poi sparerà, (e qui ne compaiono davvero tante) perché abbiamo dovuto avere anche una terza stagione?

Personaggi nuovi, stessa agonia

Anche se sembra prendere la direzione giusta – riportandoci all’ansia e inquietudine della prima stagione mentre ci prudono le gambe guardando i giocatori nel labirinto di porte – è piuttosto evidente un trascinato, faticoso sforzo di portare avanti la narrazione, fatta di morti prevedibili, in modi prevedibili, e personaggi in partenza intriganti trasformati in riempitivo, di cui esempio lampante: il detective Hwang Jun-ho, che convince quanto Ted Mosby nei Mosby Boys.

Ma vale anche per i nuovi protagonisti, che lasciano la loro traccia proporzionalmente alla loro durata nella serie. Una volta morti, ce li siamo dimenticati. Uno sforzo lento, dunque, che coinvolge anche le scene d’azione, dove uno scontro armato tra due soldati diventa una lotta infinita piena di dialoghi ridondanti che non soddisfa neppure nella sua risoluzione. Paragonabile al parto del giocatore 222 dopo che si rompe la caviglia.

Squid Game 3: il gioco è finalmente finito
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Un’improbabile redenzione

Un colpo di scena, quest’ultimo, che definisce il corso degli eventi successivi, in modo da far risaltare (se ancora lo spettatore non lo avesse capito bene dopo tre stagioni) l’innocenza contrapposta alla ferocia dell’animo umano. Tutti possiamo diventare ladri, assassini, simili alle bestie, se ci troviamo in situazioni estreme, tranne Seong Gi-hun che ci dà un’importante lezione di vita per cui si ammutoliscono anche gli annoiati vip dai piani superiori (grazie al cielo). Dà la sua vita per una vita, nonostante ci fosse il rischio che quella vita capitasse nelle mani sbagliate.

Ed è proprio qui che viene messo in atto uno stravolgimento, inaspettato a tal punto da sembrare esser stato scritto dieci minuti prima delle riprese: un’umanità si impossessa del freddissimo e brutale Frontman, in una sorta di redenzione improvvisa tramandatagli dallo sguardo morente di Seong Gi-hun. Il nostro protagonista (rispetto al quale ci è rimasto probabilmente più impresso Thanos) ha fatto quello che lui non ha potuto, gli ha dimostrato che gli uomini non sono cavalli. Un’evoluzione psicologica di un personaggio, il Frontman, di cui nessuno si è accorto, fino agli ultimi minuti.

A chiudere, l’unico vero colpo di scena che ha catturato l’attenzione di tutti: una sempre impeccabile Cate Blanchett che schiaffeggia un uomo nel gioco del Ddakji. Tutto sommato, si può dire che la conclusione abbia un lieto fine parziale, che ci lascia un po’ rassegnati e insieme sollevati: il gioco continua, ma non per noi.