À pied d’œuvre di Valérie Donzelli: il precariato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia

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À pied d’œuvre è un film malinconico e delicato che affronta il precariato attraverso il personaggio di un ex fotografo che vuole fare lo scrittore ma non riesce a sbarcare il lunario, scontrandosi inoltre con il rifiuto della sua figura da parte della società.  

À pied d’œuvre, diretto da Valérie Donzelli e presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia e un film, raffinato che non fa troppo rumore, ma rimane stampato dentro soprattutto per l’argomento di cui tratta. La precarietà viene raccontata con uno sguardo poetico e mai giudicante, attraverso la scelta di un lavoro non comune come quello dello scrittore.

Paul, un tempo fotografo affermato, sceglie infatti di abbandonare il successo per inseguire un sogno meno sfarzoso ma più vero: diventare scrittore. La sua scelta, che suona romantica se osservata senza andare a fondo e nel contesto parigino, si svela dura, poiché lo costringe a reinventarsi nella gig economy: prestazioni da manuale pagate pochi euro, algoritmi che oggi ti portano su e domani ti buttano giù, valutazioni da parte dei clienti che determinano la possibilità stessa di lavorare ancora.

Si tratta di una “uberizzazione” del lavoro, secondo il quale il lavoratore si presta a chiamata e riceve delle recensioni dagli utenti della app, proprio come il sistema di Uber. Nell’era del “cotto e mangiato” il sistema di ordinare il lavoro attraverso una app, come si ordina la cena è sì efficace, ma porta anche ad una spersonalizzazione sia del lavoratore che del richiedente quel suddetto lavoro. Si sfocia così in una fragilità che conduce all’assenza di protezioni.

Il protagonista è così una sorta di Everyman che rappresenta i precari di tutto il mondo, soprattutto coloro che si adeguano a certi sistemi per arrotondare o sbarcare il lunario (vedi i driver che appunto consegnano i pasti da asporto) e rappresentativo di tutti gli scrittori tenuti ai margini della società. Il trasforma pertanto il racconto di un singolo in un simbolo di resistenza collettiva.

 

Un protagonista a cui vuoi bene

Bastien Bouillon, nei panni di Paul il protagonista, costruisce un personaggio dolorosamente autentico: una persona che non sa rinunciare al proprio sogno di scrivere, ma che allo stesso tempo si rende conto di non poterci campare, oscillando tra la frustrazione di non poter scrivere a tempo pieno e il bisogno di mantenersi che lo porta ad accettare qualunque ingaggio pur di guadagnare qualcosa.

Com’è prevedibile queste esperienze da lavoratore precario gli daranno lo spunto per scrivere un nuovo romanzo, questa volta più consapevole e maturo dei precedenti che tra l’altro non sono andati bene in termini di vendite. Nonostante però non sia un film fatto di suspense, ma piuttosto una serie di “fumetti” della vita quotidiana di questo Everyman, l’opera si lascia seguire e nel corso della storia ci ritroviamo a voler bene a Paul e a desiderare che esca vincente da tutte le sue tribolazioni.

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La scrittura diventa necessità

La scrittura diventata necessità, una vocazione che non si può ignorare. Il tempo è il bene più prezioso e lo è ancor di più se va diviso tra più doveri: non si tratta di ispirazione, ma della paziente e quotidiana disciplina che la vocazione richiede.

À pied d’œuvre è un film che ti entra dentro piano e dolcemente per poi lasciarti dentro la sua domanda più importante: cosa vuol dire essere uno scrittore precario, e un precario più in generale oggi? Il film è misurato, silenzioso, eppure potente: una poesia cinematografica sulla dignità che resiste, anche quando il mondo sembra chiedere il prezzo più alto.