Amanda Knox torna protagonista in una serie che divide e inquieta, ma Meredith resta un’ombra

Una produzione firmata Monica Lewinsky e Disney+ riporta al centro la vicenda di Perugia, tra verità, memoria e omissioni dolorose.
Il ritorno del nome Amanda Knox sulle piattaforme streaming non è un caso isolato, ma il segno che la vicenda di Perugia continua a esercitare una forza magnetica sull’immaginario collettivo. Con The Twisted Tale of Amanda Knox, approdata su Disney+ il 20 agosto, la storia viene ripercorsa con uno sguardo nuovo, sostenuto dalla stessa Knox e da Monica Lewinsky in veste di produttrici esecutive. L’obiettivo è chiaro: restituire la voce a chi, per anni, l’ha vista distorta, manipolata e travolta dall’onda giudiziaria e mediatica.
La serie si apre con una dichiarazione di intenti: a parlare è la Knox, interpretata da Grace Van Patten, pronta a raccontare la sua verità a quasi vent’anni dai fatti. Otto episodi, di cui i primi due già disponibili, scandiscono un percorso che oscilla tra ricostruzione giudiziaria, riflessione sociale e introspezione personale. Ma fin dalle prime scene emerge una contraddizione insanabile: mentre Amanda occupa nuovamente il centro del palcoscenico, l’altra giovane donna coinvolta, Meredith Kercher, resta confinata in una dolorosa assenza.
L’operazione narrativa si inserisce nel filone del true crime contemporaneo, che più che ricostruire crimini cerca di interrogare i meccanismi del potere e del racconto. Lewinsky, da tempo impegnata a restituire dignità a figure femminili travisate dai media, imprime la sua impronta. Il risultato, però, è una fiaba nera, dove realtà e percezione si mescolano e il confine tra memoria e ossessione personale diventa sempre più fragile.
Il pubblico è chiamato a rivivere le stesse domande che hanno segnato la vicenda: quanto conta la prova concreta rispetto al giudizio morale? Quanto siamo disposti ad accettare la diversità di un comportamento, quando non corrisponde ai canoni sociali attesi? La serie non offre risposte definitive, ma spalanca di nuovo le porte a un incubo collettivo.
Una narrazione tra giustizia e spettacolo
Il lavoro di messa in scena ricorda più un documentario poetico che un thriller giudiziario. Le atmosfere sospese, quasi fiabesche, contrastano con la brutalità dei fatti reali. L’effetto straniante, però, sembra funzionale: come nelle favole, il male viene reso affrontabile solo attraverso la sua trasfigurazione. Così Amanda diventa personaggio, simbolo e vittima insieme, mentre la figura del pubblico ministero Giuliano Mignini appare come antagonista in un duello che va oltre il tribunale.
La scelta narrativa alimenta suggestioni potenti, ma rischia di spostare l’attenzione sullo scontro ideologico piuttosto che sulla verità storica. In questo senso, la serie è coerente con l’intento dichiarato: non tanto fare cronaca, quanto reclamare il diritto a un racconto personale. Il limite, però, è evidente: nell’ossessione di rivendicare la propria versione, Knox finisce per occupare ogni spazio, lasciando nell’ombra Meredith, la vera vittima di quella notte del 2007.
Una storia ancora senza lieto fine
Dal punto di vista critico, The Twisted Tale of Amanda Knox si presenta come un prodotto riuscito sul piano registico e narrativo, capace di avvolgere lo spettatore in un’atmosfera inquieta e riflessiva. Funziona quando denuncia il peso distorto dei media e quando evidenzia le falle di un sistema giudiziario che ha trasformato due giovani studenti in protagonisti di un processo mediatico globale.
Eppure, la serie lascia un retrogusto amaro. Se da un lato restituisce dignità a una donna che ha combattuto per anni contro la gogna pubblica, dall’altro perpetua un meccanismo che conosciamo bene: quello di far sparire le vittime reali dietro il fascino morboso di chi è sopravvissuto allo scandalo. Meredith Kercher, ridotta a spettatrice silenziosa della propria tragedia, resta il grande vuoto di questa narrazione.
The Twisted Tale of Amanda Knox non è quindi una storia a lieto fine, ma il ritratto di un dolore che continua a ramificarsi, diviso tra la legittima ricerca di giustizia personale e l’oblio ingiusto di chi non ha più voce per raccontarsi.