Dead Man’s Wire, fuori concorso a Venezia 82. Gus Van Sant racconta un’esilarante storia vera

DEAD_MAN_S_WIRE_-_Bill_Skarsg__rd_and_Dacre_Montgomery__Credits_Stefania_Rosini

Con Dead Man’s Wire, presentato fuori concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, Gus Van Sant torna dietro la macchina da presa firmando un’opera che dialoga apertamente con il cinema americano degli anni Settanta.  

Il periodo storico in questione ha visto intrecciarsi thriller e cronaca in racconti in cui vi si trova un’alta tensione sociale e mediatica. Il film riprende un fatto di cronaca realmente accaduto nel 1977: Tony Kiritsis (Bill Skarsgård), esasperato da questioni finanziarie, rapì un broker immobiliare legandogli un fucile alla testa con un congegno a filo (il “dead man’s wire” appunto) e chiedendo un riscatto milionario, insieme a un’improbabile scusa pubblica.

Van Sant decide di raccontare questa storia tra il realismo della ricostruzione (praticamente alcune inquadrature sono identiche a quelle reali) e il grottesco della situazione, che si presenta come comica dall’inizio alla fine. Così Van Sant costruisce un thriller malinconico ma molto ironico che lo avvicina a film come Quel pomeriggio di un giorno da cani o Quinto potere. L’atmosfera è resa ancora più viva da scelte estetiche precise, come le immagini televisive d’epoca.

Nel cast Bill Skarsgård nei panni del rapitore offre un’interpretazione maniacale e febbrile con il suo solito fascino magnetico ma anche disturbante per cui solo lui può interpretare personaggi squilibrati. Dacre Montgomery, nei panni della vittima, ha lavorato per sottrazione, puntando tutto sul dolore e le espressioni di paura, ma soprattutto la delusione nei suoi occhi quando suo padre reagisce in modo inaspettato alla telefonata con il suo rapitore.

A questo proposito citiamo la comparsa a sorpresa di un sempre incisivo Al Pacino che incarna un uomo arrogante, avido, incapace di offrire l’empatia che il figlio si aspetterebbe da lui, diventando così una delle chiavi di lettura più amare e commoventi del film. A completare il quadro, Myha’la interpreta una giornalista sempre in cerca dello scoop e il sempre carismatico Colman Domingo un DJ radiofonico, entrambi personaggi fondamentali che rappresentano perfettamente la riflessione sui media e la spettacolarizzazione del crimine.

Un film cinico e ironico

Van Sant punta tutto su cinismo e ironia, lasciando pochissimo spazio all’aspetto emozionale (la scena della telefonata col padre appunto), per il resto prende la vicenda per quella che è: un bizzarro fatto di cronaca conclusosi per fortuna nel migliore dei modi. In un certo senso è come se Van Sant avesse voluto riportare fedelmente e in forma di film recitato (quindi di fiction) l’evento reale. Per questo motivo il film forse non è stato apprezzato all’unanimità, perché il grottesco allontana sempre un po’ lo spettatore dalla vicenda.

Dead Man’s Wire resta un ritorno importante: un’opera che non si limita a raccontare un caso di cronaca, ma lo trasforma in un dispositivo narrativo per interrogare il rapporto tra giustizia, disperazione individuale e spettacolarizzazione del dolore. È un Van Sant che guarda indietro al cinema del passato ma che riesce ad essere attuale rispetto a un mondo che si presenta vittima degli stessi meccanismi.

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Straniamento ed emozione

Dead Man’s Wire è un film che non cerca evidentemente il sentimentalismo: preferisce restare sospeso in una dimensione straniante, dove la cronaca diventa spettacolo e lo spettacolo a sua volta riflette i vizi contemporanei. È proprio in questo continuo gioco di specchi che il film trova la sua forza.

Van Sant consegna così al pubblico un’opera che divide e probabilmente dividerà ancora, ma che ha il pregio di riportare il suo cinema verso quella dimensione scomoda e corrosiva che gli appartiene. Dead Man’s Wire non è un film che vuole piacere a tutti ma riporta in primo piano il potere destabilizzante del cinema quando decide di affrontare la realtà senza filtri.