Orphan di László Nemes: un viaggio personale che diventa memoria collettiva al Festival di Venezia

Il regista premio Oscar di Son of Saul torna in concorso con un’opera intima e storica, tra trauma e speranza.
Con Orphan, presentato in concorso alla 82esima edizione del Festival di Venezia, László Nemes conferma la sua capacità di fondere memoria personale e riflessione universale. Dopo il Leone d’Oro per Il figlio di Saul e la successiva esperienza di Tramonto, il regista ungherese porta sullo schermo un racconto profondamente intimo, ispirato alla vicenda del padre dodicenne che scoprì di non conoscere davvero le proprie origini. Un segreto familiare che si intreccia con la Storia e con le ferite di un’epoca.
Ambientato nel 1957, poco dopo la fallita rivolta ungherese contro il regime sovietico, Orphan segue il giovane Andor, un ragazzo nato negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale e costretto a confrontarsi con una verità destabilizzante. La scoperta della sua identità si riflette in un contesto di repressione politica e tensioni sociali, rendendo il suo percorso di crescita una parabola sulla fragilità dell’individuo di fronte alle forze storiche che lo sovrastano.
Nemes parte da un nucleo autobiografico, ma lo amplia fino a renderlo quasi archetipico, evocando figure come Edipo o Amleto. Non un semplice racconto di formazione, dunque, ma la rappresentazione di come i traumi familiari e collettivi si trasmettano attraverso le generazioni, incidendo sul presente anche decenni dopo.
Lo sguardo del regista è insieme lucido e poetico: come in Il figlio di Saul, il passato non è mai passato del tutto. Ogni inquadratura diventa occasione per interrogarsi sul rapporto tra individuo e Storia, e sull’impossibilità di sottrarsi a cicli che sembrano destinati a ripetersi.
Un bambino tra durezza e dolcezza
Il cuore di Orphan è il contrasto tra la durezza del contesto e la dolcezza di uno sguardo ancora infantile. Nemes lo definisce “magical socialism”, una forma di realismo che non rinuncia a lampi di lirismo. Andor è un protagonista che attraversa la linea sottile tra infanzia e maturità, oscillando tra paura e coraggio, tra innocenza e consapevolezza.
Il film si colloca nella tradizione dei racconti bellici filtrati dagli occhi dei bambini, da Va’ e vedi fino a L’impero del sole di Spielberg, ma evita di cadere nella retorica. La durezza delle immagini convive con momenti di intima tenerezza, in cui emerge la possibilità di speranza anche nel cuore dell’oppressione. Persino nelle situazioni più oscure, Nemes sembra voler ribadire che l’umanità può resistere, seppur in forme fragili e imperfette.
Tra passato e futuro del cinema di Nemes
Con Orphan, Nemes dimostra di voler restare fedele a un cinema che scava nel passato per parlare al presente. La scelta di ambientare ancora una volta la sua storia in un contesto storico preciso non è solo un atto di memoria, ma anche la ricerca di un linguaggio che lasci spazio allo spettatore. Non tutto è detto, non tutto è mostrato: il pubblico è chiamato a completare l’esperienza, a portare dentro di sé il peso e la luce del racconto.
Allo stesso tempo, il regista non nasconde di sognare nuove sfide. Sta già preparando Moulin, dedicato alla Resistenza francese, e coltiva il desiderio di girare finalmente un film in inglese, pur consapevole delle difficoltà di mantenere il controllo artistico in un sistema produttivo diverso da quello europeo.
Orphan si presenta come un’opera dolceamara, capace di trasformare un trauma personale in una riflessione collettiva. Al centro, la figura di un bambino che cerca risposte in un mondo ostile, diventando simbolo di un’umanità che, tra repressioni e segreti, continua a inseguire la verità. Un film che, tra intimità e universalità, si candida a essere una delle opere più discusse del Festival di Venezia 2025.