“Finale” dei Familie Flöz al Teatro Bellini: il silenzio che parla di noi

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Nel trentesimo anniversario della loro storia artistica, la Familie Flöz torna a stupire con Finale, in prima nazionale al Teatro Bellini di Napoli.

Dopo il debutto mondiale al Berliner Ensemble, il collettivo berlinese, ormai leggenda vivente del teatro di maschera contemporaneo, continua a indagare il mistero più grande della scena: il legame invisibile tra attore e spettatore, tra vita e rappresentazione. Come sempre, nessuna parola viene pronunciata. Eppure, in questo silenzio denso e vibrante, Finale riesce a raccontare più di mille dialoghi. Le maschere, rigide e mute, si animano di una forza poetica che nasce dal gesto, dal ritmo e dall’emozione condivisa in platea.

È proprio lo spettatore, suggerisce la compagnia, il “cuore segreto” del teatro: il battito collettivo che dà vita alle storie. Sul palco, questa volta, troviamo tre storie che si intrecciano come variazioni sul tema dell’esistenza. C’è il gestore di un bar notturno, prigioniero di un altruismo senza misura; un uomo che affronta la malattia della madre e il vuoto della propria identità; una giovane donna che cerca la purezza della natura, ma scopre che anche l’idillio di un luogo immerso nel verde può nascondere delle ombre.

I tre destini di questi personaggi sono in bilico, uniti da un filo sottile di umanità e dalla presenza di una misteriosa narratrice silenziosa, una fotografa, che sembra vegliare e, in alcuni casi, creare lei stessa i personaggi. La metafora della fotografia, dello scatto che va ad immortalare un volto o un momento, viene esplicitata fin dal principio con una piccola introduzione “fuori scena” fatta dagli stessi attori che introducono il personaggio della narratrice. La stessa scenografia con elementi geometrici rettangolari e quadrati riprende il concetto riproducendo anche gli stessi scatti che rappresentano i personaggi.

Familie Flöz: una famiglia come un corpo unico

La regia di Hajo Schüler, coadiuvata da Anna Kistel, costruisce un mondo sospeso, dove l’illusione scenica si fa materia viva: la scenografia di Stephane Laimé e Mascha Schubert si trasforma davanti agli occhi, le luci di Reinhard Hubert scolpiscono atmosfere di sogno e inquietudine, mentre le musiche originali di Vasko Damjanov e Almut Lustig accompagnano i passaggi emotivi con una delicatezza quasi cinematografica. Tutto ciò è orchestrato in modo da creare un mondo onirico nel quale è sempre bello lasciarsi trasportare.

Finale è, come recita il sottotitolo, “un’ouverture”: un paradosso poetico che rovescia l’idea di fine, trasformandola in inizio. È un rito teatrale dedicato al pubblico, un invito a riscoprire la meraviglia di creare insieme, sul palco e in platea, un battito comune, un linguaggio che non ha bisogno di parole. Familie Flöz, con la sua inconfondibile arte del gesto e della maschera, celebra con questo spettacolo, trent’anni di teatro ricordandoci che, in fondo, ogni storia nasce dallo sguardo di chi la ascolta. E che forse il vero “finale” del titolo è proprio questo: tornare a sentirci parte di una stessa emozione.

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Familie Flöz: un mondo onirico di cui non possiamo fare a meno

Partecipare a un nuovo viaggio firmato Familie Flöz significa, ogni volta, ritrovarsi dentro un sogno condiviso: uno spazio sospeso tra realtà e immaginazione, dove ciò che è muto parla e ciò che è finto diventa vero. È un teatro che non racconta solo storie, ma sensazioni; che non chiede di capire, ma di sentire. Anche quando si riconoscono i tratti familiari delle loro maschere e dei loro gesti, la compagnia riesce sempre a sorprenderci, a rinnovare la propria poetica con sfumature inedite, trovando in ogni dettaglio un nuovo modo per parlare dell’essere umano.

Perché lo straniamento che nasce dalla visione di quei volti posticci restituisce qualcosa di profondamente autentico. È proprio in quella distanza, in quella stilizzazione estrema, che emergono le emozioni più vere: la solitudine, la paura, la tenerezza, la speranza. Ed è forse questo il segreto della Familie Flöz — la capacità di ricordarci, dietro una maschera, chi siamo davvero.