Esterno notte di Marco Bellocchio al Festival di Cannes. Recensione

Presentato alla 75a edizione del Festival di Cannes, Esterno notte di Marco Bellocchio è uscito in contemporanea alla presentazione il 18 maggio 2022 nelle sale italiane.

Si tratta di una serie composta da sei episodi che hanno aperto la seconda giornata del Festival con una delle pagine più nere della storia italiana, quella del rapimento Moro.

In un certo senso potremmo considerare Esterno notte come un unico grande film, poiché dal momento in cui ci si siede in poltrona si viene proiettati alla fine degli anni di piombo in Italia, nel 1978, anno del rapimento Moro e non ci si rende conto del tempo che passa perché si viene completamente catturati dalla storia e dal caso Moro.

Si tratta di una vicenda impressa in profondità nella memoria del Paese, una ferita profonda che dopo tanti anni sanguina ancora e malgrado siamo perfettamente a conoscenza del finale, ogni volta continuiamo a seguire il caso sperando in un responso diverso, un po’ come il finale di Ones Upon a Time in Hollywood sul caso di Sharon Tate.

Nel caso di Esterno Notte, il finale rimane quello che tristemente conosciamo anche se all’inizio della serie nei primi minuti del primo episodio Bellocchio riprende un po’ quello che aveva già fatto in Buongiorno notte e immagina una realtà parallela in cui Aldo Moro non è morto.

Il cast, inutile dirlo, è stellare ed è composto da Fabrizio Gifuni (Aldo Moro), Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Gabriel Montesi, Daniela Marra, Vito Facciolla, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Pier Giorgio Bellocchio, Antonio Piovanelli, Bruno Cariello, Gigio Alberti, Emmanuele Aita. 

Esterno Notte procede avanti e indietro nel tempo partendo dal 1978 e andando a volte a ritroso fino a un anno prima dando respiro a tutte le sotto trame e vicende collegate al caso principale. Possiamo così osservare da più punti di vista la stessa vicenda ma senza che vi siano ripetizioni perché il ritmo della narrazione non cede mai.

Nel 1978 l’Italia è dilaniata da una guerra civile che vede da una parte le Brigate Rosse, organizzazione armata di estrema sinistra, e dall’altra lo Stato. Sono gli anni delle violenze di piazza, dei rapimenti, delle gambizzazioni, degli scontri a fuoco e degli attentati.

Sta per insediarsi, per la prima volta in un paese occidentale un governo sostenuto dal Partito Comunista (PCI), in un’epocale alleanza con lo storico baluardo conservatore della Nazione, la Democrazia Cristiana (DC). Siamo a un passo dal Compromesso storico, compromesso che non avrà mai luogo come ben sappiamo.

Aldo Moro interpretato rigorosamente da Fabrizio Gifuni, ricordando a tratti il Gian Maria Volonté ne Il caso Moro (1986, Giuseppe Ferrara). Moro in quel periodo era il Presidente della DC nonché il principale fautore dell’accordo mai siglato e denominato Compromesso storico, che sarebbe stato un passo decisivo nel reciproco riconoscimento tra i due partiti più importanti d’Italia.

Il resto, come si suol dire è storia, proprio nel giorno dell’insediamento del governo che con la sua abilità politica è riuscito a costruire, il 16 marzo 1978, sulla strada che lo porta in Parlamento, Aldo Moro viene rapito con un agguato che vede la sua scorta fatta fuori a colpi di mitragliatrici. Quel giorno fu inferto un attacco diretto al cuore dello Stato.

La prigionia di Moro durò cinquantacinque giorni, scanditi dalle lettere di Moro e dai comunicati dei brigatisti: cinquantacinque giorni di speranza, paura, trattative, fallimenti, buone intenzioni e cattive azioni. Cinquantacinque giorni al termine dei quali il suo cadavere verrà abbandonato in un’automobile nel pieno centro di Roma, esattamente a metà strada tra la sede della DC e quella del PCI.

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Su Aldo Moro e sulla sua tragica fine si è detto, scritto e girato molto e ancora oggi rimane uno degli argomenti più dibattuti, intorno al quale sono state fatte le ipotesi più disparate. A distanza di anni, alcune di queste sono le più accreditate e tutte convergono nella comune direzione che vedeva Aldo Moro morto perché la sia dipartita faceva comodo a tutti. Se ne fece un martire e come la storia ci ricorda la famiglia rifiutò i funerali di Stato, perché quello Stato non aveva saputo proteggere né aveva voluto salvarlo.

Ci sono infatti diverse ipotesi rispetto alla non volontà di trovarlo davvero e questo si può vedere anche nella serie di Bellocchio.

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Guardandola non si può fare a meno di emozionarsi e di provare i brividi di fronte a qualcosa che ci appartiene, purtroppo, come italiani. È inevitabile pensare che questo evento fa parte della nostra identità di italiani, ci ha formati, trasfigurati e cambiati per sempre e lo ha fatti anche sulle generazioni non ancora nate nel 1978. Questo perché tutto quello che è diventato il Paese dopo quell’evento, in politica e in società arriva fino a noi, passando per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

Un lavoro come questo di Marco Bellocchio non racconta semplicemente il passato, è una fotografia del presente, uno specchio che racconta molto di noi oggi.