Dog 51, un thriller distopico che parla del presente più di quanto sembri | Fuori concorso a Venezia

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Adèle Exarchopoulos e Gilles Lellouche guidano un film cupo e claustrofobico che riflette sul potere e sulla disumanizzazione.

Con Dog 51 (Chien 51), presentato al Festival di Venezia, il regista Cédric Jimenez si cimenta in un racconto di fantascienza distopica che, dietro il velo di un futuro immaginario, mette a nudo le paure e le contraddizioni del nostro presente. Ambientato in un mondo governato da sistemi totalitari, il film indaga i rapporti di potere e il progressivo svuotamento dell’individuo, costretto a muoversi in una società che ha perso ogni traccia di umanità.

L’opera si apre in un contesto urbano freddo e disumanizzante, dove la divisione tra chi detiene il potere e chi è costretto a subirlo è netta e incolmabile. Al centro della vicenda troviamo i personaggi interpretati da Adèle Exarchopoulos e Gilles Lellouche, due figure agli antipodi che si trovano costrette a interagire, mostrando fragilità e resistenze in un mondo che sembra non ammettere alternative.

Un futuro distopico che parla dell’oggi

La forza di Dog 51 sta nella sua capacità di costruire un futuro credibile e spaventoso senza abbandonarsi a eccessi visivi. Jimenez opta per un’estetica cupa, fatta di spazi industriali, luci artificiali e atmosfere soffocanti. Ogni inquadratura sembra comunicare il senso di oppressione che grava sui personaggi, trasformando l’ambiente stesso in un antagonista silenzioso.

Ma ciò che colpisce è il sottotesto politico e sociale: più che descrivere un futuro remoto, il film sembra voler parlare delle derive contemporanee – il controllo delle masse, la perdita di diritti individuali, la manipolazione della verità. È un racconto che si muove tra allegoria e denuncia, con la distopia come specchio deformante delle ansie del presente.

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Le interpretazioni e i limiti della narrazione

Adèle Exarchopoulos offre una prova intensa, restituendo un personaggio complesso, combattuto tra rabbia e vulnerabilità. Al suo fianco, Gilles Lellouche porta in scena una fisicità imponente e una tensione costante, incarnando la brutalità e il tormento interiore di un uomo intrappolato in dinamiche che non può controllare. La loro chimica, fatta di attrazione e repulsione, costituisce il cuore pulsante del film.

Nonostante le interpretazioni convincenti, la narrazione di Dog 51 a tratti si perde in eccessi retorici e sequenze troppo tese a sottolineare l’angoscia generale. Alcuni passaggi risultano ridondanti, quasi a voler ribadire un messaggio che il pubblico ha già colto. È qui che il film rischia di sacrificare la forza della storia in nome di un simbolismo fin troppo insistito.

Dog 51 è un’opera ambiziosa e imperfetta, che non lascia indifferenti. Il suo pregio maggiore è quello di usare il linguaggio del cinema di genere per stimolare riflessioni profonde sul presente, tra derive autoritarie e perdita di identità. Se il racconto distopico può sembrare a tratti troppo cupo o didascalico, resta comunque un’esperienza visiva e narrativa di forte impatto. Un film che non vuole rassicurare, ma costringere lo spettatore a guardare in faccia i fantasmi del nostro tempo.