Eleanor Oliphant sta benissimo: la recensione del caso editoriale dell’anno

“Mi chiamo Eleanor Oliphant e sto bene, anzi: benissimo. Non bado agli altri. So che spesso mi fissano, sussurrano, girano la testa quando passo. Forse è perché io dico sempre quello che penso. Ma io sorrido, perché sto bene così. […] mi prendo cura di Polly, la mia piantina: lei ha bisogno di me, e io non ho bisogno di nient’altro. Perché da sola sto bene. […] E se me lo chiedete, infatti, io sto bene. Anzi, benissimo. O così credevo, fino a oggi. Perché oggi è successa una cosa nuova. Qualcuno mi ha rivolto un gesto gentile. Il primo della mia vita. E questo ha cambiato ogni cosa. D’improvviso, ho scoperto che il mondo segue delle regole che non conosco. Che gli altri non hanno le mie stesse paure, e non cercano a ogni istante di dimenticare il passato. Forse il “tutto” che credevo di avere è precisamente tutto ciò che mi manca. E forse è ora di imparare davvero a stare bene. Anzi: benissimo[…]”

Così inizia il caso editoriale dell’anno: Eleanor Oliphant sta benissimoesordio letterario di Gail Honeymann (Garzanti).

Un libro in realtà “banale”, nel senso Arendtiano del temine, però.
Banale perché Eleanor è una protagonista in cui non è difficile riconoscersi. Eleanor è “una persona normale” che aspira alla “medietà” ma questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente non ritenuti “normali” dalla società trovino luogo in manifestazioni come l’abitudinarietà estrema, la totale assenza di relazioni, di interessi e di gusti.
Non è difficile riconoscersi in Eleanor perché spesso ci si rifugia nella propria realtà per non vivere quello che c’è veramente fuori. In quel riparo si crede di stare benissimo, è la zona di comfort di ciascuno di noi, ma basta una folata di aria fresca per capire che, forse, troppo è quello che si sta perdendo…E non è un caso che il romanzo abbia dato origine al genere emergente dei romanzi “up-lit”, che sta per uplifting, ovvero “letteratura edificante”, cioè che fa “stare meglio”. Come non è un caso che sia diventato un bestseller, un romanzo che per i librai è unico e raro come solo le grandi opere possono essere. Ha un ritmo paragonabile a quello di un giallo perfetto, custodisce colpi di scena completamente imprevedibili e dona un finale non scontato, molto vero e umano al punto che nel posare il libro ti rendi conto che hai letto qualcosa che rimarrà, dentro di te a lungo, e nella storia della letteratura. E poi i numeri parlano da soli: venduto in 35 paesi, per mesi in vetta alle classifiche, adorato sui social dalle star del cinema più impegnate, vincitore del Costa First Novel award, e che presto diventerà un film.

L’autrice scozzese Gail Honeymann ha fatto bingo grazie a una straordinaria “banalità”. È riuscita a immortalare con grande ironia ed eccentricità una delle grandi malattie dei nostri giorni, una delle più ripugnanti e difficili da debellare, cantata nei secoli dei secoli, con vari gradi di profondità, in canzonette e poesie e letteralmente a “denudarla”: la solitudine. 

“[…]Eccomi qui: Eleanor Oliphant. Capelli lunghi, lisci, castano chiaro, che mi scendono giù fino alla vita, pelle chiara, il volto un palinsesto di fuoco. Un naso troppo piccolo e occhi troppo grandi. Orecchie: niente di eccezionale. Altezza più o meno nella media, peso approssimativamente nella media. Aspiro alla medietà…. Sono stata al centro di fin troppa attenzione in vita mia. Ignoratemi, passate oltre, non c’è nulla da vedere qui[…]”

È un’esistenza incapsulata in una dimensione di solitudine e diffidenza nei confronti del prossimo quella della nostra moderna eroina della solitudine:

“[…]Ci si abitua a stare da soli. A dire il vero, è molto meglio che essere prese a pugni in faccia o stuprate[…]” 

Eleanor è caratterizzata sin dall’inizio da un profondo senso di lucida logicità con il quale riesce a dare un’interpretazione accettabile a ogni evento che le capita. L’ambiente lavorativo, lei esperta contabile di una piccola società di Glasgow, viene descritto in tutta la sua banalità e noiosa evoluzione, dominato da un’abissale distanza tra la protagonista e i suoi colleghi. Questa ragazza, appassionata di cruciverba e di cibo preconfezionato, vive con la consapevolezza di non avere nessuna amicizia, nessun contatto all’infuori del mondo lavorativo con il quale, per di più, mantiene un rapporto di totale estraneità. Eleanor sarebbe anche una persona brillante, un’erudita con molte conoscenze e opinioni personali, che non si trattiene dal dispensarle agli altri senza filtri, senza riguardi, ignara delle convenzioni sociali, cosa che la rende spesso irritante, ma anche molto divertente. Non fa shopping, non si trucca, non ha mai fatto la ceretta e non ha un cellulare. È goffa, piccata, caustica e totalmente inconsapevole del mondo, ma scoprirà, anche di se stessa.

Eleonor, infatti, è ignara del modo in cui il suo comportamento appare a coloro che la circondano: ciò è dovuto alle esperienze traumatiche della sua infanzia, che hanno influenzato la sua capacità di avere rapporti empatici con altre persone. Una cicatrice sul volto come segno distintivo e come condanna perpetua alla non felicità. L’unica connessione che sembra avere con il proprio passato è la conversazione telefonica settimanale con una madre che, ancora, da lontano, sembra esercitare su lei un controllo ossessivo e destabilizzante e con le visite, semestrali, degli assistenti sociali.

[…] Solo il mercoledì mi inquieta, perché è il giorno in cui arriva la telefonata dalla prigione. Da mia madre. Dopo, quando chiudo la chiamata, mi accorgo di sfiorare la cicatrice che ho sul volto e ogni cosa mi sembra diversa. Ma non dura molto, perché io non lo permetto […]

Questo è il vero nodo problematico da cui nasce ogni male: il rapporto tra Eleanor e la madre che colora il suo passato di tinte oscure e minacciose. La descrizione della madre, tramite i dialoghi telefonici intrisi di rabbia repressa e dolore appena soffocato, ci dà l’immagine di una persone completamente distante dalla dimensione emotiva vissuta dalla figlia, una donna brutale nelle risposte e nei comportamenti e  questa durezza materna si manifesta nell’incapacità di Eleanor di provare a relazionarsi con le altre persone.

Eleanor nella sua eccentricità si fa scudo della propria straordinaria capacità di godere della propria solitudine, una calda coperta dentro la quale rifugiarsi. Una calda coperta pesante sotto cui questa felice ripetizione di gesti e di appuntamenti si cela un senso di profonda tristezza e di autentico dolore, camuffato durante i fine settimana grazie all’azione rassicurante della vodka che anestetizza ogni spiacevole sensazione. Le cose cambiano quando fa la conoscenza di Raymond Gibbons dell’helpdesk, un giovane collega che è, in tutto, il suo esatto contrario, ma soprattutto l’esatto contrario di quello che si definirebbe un “principe azzurro”: pancetta, barba ispida a chiazze, scarpe da ginnastica ai piedi, niente macchina, scrive mail piene di sigle e abbreviazioni, con un suo stile di comunicazione che Eleanor definisce “da analfabeta”. Non un oggetto del desiderio quindi, piuttosto uno strumento di salvezza. Un portatore sano di amicizia profonda e disinteressata che costituisce il “cuore” del romanzo e lo rende intenso e commovente. 

“[…] Ecco che cosa provavo: il peso caldo delle sue mani su di me; la sincerità del suo sorriso; il calore delicato di qualcosa che si apriva, nello stesso modo in cui i fiori si schiudono la mattina alla vista del sole. Sapevo che cosa stava accadendo. Era la parte priva di cicatrici del mio cuore. Era abbastanza estesa da lasciare entrare un po’ di affetto. C’era ancora un minuscolo spazio libero […]”.

Grazie a Raymond Eleanor si convince a ricomporre i frammenti dolorosi della sua esistenza e la sensazione di sentirsi come un giocattolo rotto che non può essere riparato farà spazio al trionfo di una nuova condizione emotiva, dove il contatto con il prossimo, l’abbandonarsi a un caldo abbraccio daranno autenticità all’espressione “sto bene […] sto benissimo” che per troppo tempo ha fatto da cornice a un’esistenza fragile e dilaniata dal senso di colpa.
Un romanzo intenso nella sua splendida banalità, un inno alla vita e un invito ad accogliere la potenzialità salvifica dell’amicizia, quando ci si presenta, perché se Eleanor ora “sta bene […] sta benissimo” è perché ha trovato il suo tesoro. Un vero amico.