Donne manager in aumento nel 2020, ma è ancora troppo poco il sostegno all’imprenditoria femminile

Donne manager donna con una tazza
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Donne manager in aumento nel 2020, ma è ancora troppo poco il sostegno all’imprenditoria femminile. Tra le varie forme di imprenditoria che stanno emergendo o si stanno affermando, vi è certamente quella femminile. Oramai il tema “impresa femminile” e delle donne manager è sempre più al centro delle agende delle istituzioni internazionali, perché il binomio “competitività-sostenibilità” passa anche dall’imprenditoria “rosa”, perché come afferma l’OCSE, sostenere l’uguaglianza di genere significa sostenere il benessere e la felicità. Motivo per cui diventa determinante la conoscenza del fenomeno “impresa femminile”.
Partiamo dalle basi: Unioncamere nel 2008 – partendo dalla legge 215/92 e in considerazione delle modifiche legislative intervenute sul libro soci delle società di capitali – ha elaborato un algoritmo per la definizione di impresa femminile all’interno del Registro delle imprese delle Camere di commercio. In base a questo si definisce femminile un’impresa la cui partecipazione di genere risulta superiore al 50%, mediando la composizione delle quote di partecipazione e le cariche attribuite. 

Donne manager imprese femminili in italia

Stiamo parlando quindi di imprese individuali di cui siano titolari donne ovvero donne manager; le società di persone in cui la maggioranza dei soci è di genere femminile; le società di capitali in cui la maggioranza delle quote di partecipazione sia nella titolarità di donne, ovvero in cui la maggioranza delle cariche sia attribuita a donne, ovvero le imprese in cui la media tra le quote di partecipazione nella titolarità di donne e le quote delle cariche attribuite a donne risulti superiore al 50%; le imprese cooperative in cui la maggioranza dei soci sia di genere femminile.

grafico delle imprese al femminile

Secondo il Rapporto Imprenditoria Femminile 2020, a fine 2019, sono oltre 38mila in più le imprese femminili iscritte al Registro delle Camere di commercio rispetto al 2014. Con questo aumento costante, le imprese femminili sono arrivate a 1 milione e 340mila rappresentando il 22% del totale delle imprese. Negli ultimi 5 anni sono cresciute a un ritmo molto più intenso di quelle maschili: +2,9% contro +0,3%: in valori assoluti l’aumento delle imprese femminili è stato più del triplo rispetto a quello delle imprese maschili.
In pratica, le imprese che vedono donne manager hanno contribuito a ben il 75% dell’incremento complessivo di tutte le imprese in Italia, pari a +50.784 unità.
Scusate se è poco. 

Donne manager i settori più rosa

Da un punto di vista strutturale, l’imprenditoria rosa si caratterizza per una maggiore concentrazione nel settore dei servizi, dove operano circa i due terzi delle imprese (66,2% per oltre 886 mila) contro solo poco più della metà nel caso delle imprese maschili (55,4%). Così, quello femminile risulta un segmento produttivo meno “industrializzato”, dato che solo 11,3 imprese rosa su 100 operano nell’industria a fronte di quasi 27 su 100 per quelle maschili, ma anche qui crescono con una intensità maggiore delle imprese maschili nelle attività professionali scientifiche e tecniche (+17,4% contro +9,3% di quelle maschili) e dell’Informatica e telecomunicazioni (+9,1%,contro il +8,9% delle maschili).Alla luce di questo dato sarebbe ancora più importante aiutare ad avvicinare il fare impresa femminile al settore industriale, con particolare riguardo a molti ambiti del manifatturiero, perché significherebbe fare entrare la donna in modalità imprenditoriali più complesse e dall’alto tasso di crescita tecnologica, innovativa e aziendale, contribuendo a sostenere la forza industriale del nostro Paese.

Relativamente alla dimensione media delle imprese al femminile, si può certamente notare una spiccata dimensione “micro”, che messa in questi termini sembrerebbe un ossimoro.

Donne manager dimensione dell'impresa

Circa 97 imprese su 100 guidate da donne non hanno oltre i 9 addetti (94,5 su 100 nel caso delle imprese maschili), di cui ben 62,3 su 100 non più di uno solo. Questo aspetto sottolinea rilevanti questioni legate ai tanti ostacoli che affrontano le imprese di ridotte dimensioni in termini, ad esempio, di accesso al credito, di investimenti, di internazionalizzazione ecc. Non a caso, i risultati dell’indagine indicano un effetto genere a sfavore delle imprese femminili anche se il rapporto osserva anche una crescita di oltre 3mila unità di imprese medio-grandi che sembra indicare l’avvio di un nuovo approccio della “donna” all’impresa verso modelli aziendali più strutturati.
Infatti, le società di capitali condotte da donne sono aumentate di oltre il 28% nel 2019, arrivando a rappresentare oltre il 23% delle imprese femminili, mentre le società di persone e le imprese individuali, che restano, comunque, la forma giuridica più diffusa nell’universo imprenditoriale femminile, si stanno progressivamente riducendo.

Donne manager i territori più rosa

Lazio (+7,1%), Campania (+5,4%), Calabria (+5,3%), Trentino (+5%), Sicilia (+4,9%), Lombardia (+4%) e Sardegna (+3,8%) le regioni in cui le aziende al femminile aumentano oltre la media. In termini di incidenza territoriale, sul totale delle imprese, al vertice della classifica si incontrano tuttavia tre regioni del Mezzogiorno (Molise, Basilicata e Abruzzo), seguite dall’Umbria, dalla Sicilia e dalla Val d’Aosta. Dal punto di vista territoriale, le imprese femminili si concentrano, rispetto a quelle maschili, maggiormente quindi nel Mezzogiorno (36,3%) dove anche grazie eliminazione del gap di istruzione tra i due generi, l’avventura imprenditoriale è vista come un’opportunità a tutti gli effetti di piena affermazione professionale.
Dietro a questo mutamento, secondo il rapporto di Unioncamere, potrebbe in parte celarsi una delle spiegazioni sottostanti la maggiore presenza giovanile tra le imprese femminili: basti pensare che 12 imprese rosa su 100 sono guidate da under 35 a fronte delle circa 8 su 100 se si tratta di imprese maschili. 

Cresce quindi il numero delle donne manager e la dirigenza delle aziende si colora sempre più di rosa. Inutile fare retorica sulla stereotipizzazione dei colori eccetera. Questo dato emerge anche dall’ultimo Rapporto Donne Manageritalia, Federazione nazionale dirigenti, quadri e professional del commercio, trasporti, turismo, servizi, terziario avanzato, diffuso come ogni anno in occasione della Festa della donna.
Il dato più rilevante è la crescita del 49% dal 2008 al 2019, a fronte di un calo del 10% degli uomini. Il percorso e la ripresa della dirigenza privata sono guidati dalle donne, che oggi rappresentano il 18,3% del totale, secondo gli ultimi dati Inps, con un salto del 32,3% tra le under35 e il 28% tra le under40.

Importante notare come il settore dei dirigenti privati, e in particolare quello del terziario, vedano crescere in modo cospicuo il peso delle donne. Un fattore legato, nella dirigenza privata e soprattutto in aziende multinazionali estere o italiane e/o comunque in grandi aziende, alla valorizzazione del merito e comunque ad anni di politiche volte alla valorizzazione della diversity e di un lavoro produttivo, ma smart. Certo questo deve avvenire ovunque, ma non basta. Serve passare ad un’organizzazione del lavoro, della vita familiare e della società davvero smart a vantaggio di tutti. Di fronte al calo delle donne occupate, anche di quelle in posizioni cognitive altamente qualificate, la crescita delle donne dirigenti, ancor più nel terziario, è uno spiraglio di luce importante commenta Luisa Quarta, coordinatrice Gruppo Donne ManageritaliaSperiamo che serva a trascinare tutto il mondo del lavoro verso un maggior spazio al merito e quindi alle donne”.

Secondo il Global Gender Gap Report 2018 pubblicato dal World Economic Forum, ci vorranno 108 anni per chiudere completamente il gender gap tra uomini e donne, e addirittura 202 per ottenere la parità tra i due generi sul posto di lavoro. 

Questo significa che forse i nostr* nipot* potranno dire di aver azzerato completamente il divario di genere.

Già nel 1999 l’analista Kathy Matsui elaborò per Goldman Sachs la teoria della Womenomics. Matsui sosteneva che incentivare le donne a partecipare al mondo del lavoro avrebbe impresso una forza dirompente all’economia del suo Paese, che misurò in un +13% del Pil. Dopo più di venti anni, tuttavia, la questione femminile resta irrisolta e non solo in Giappone.

A occhio e croce direi che di strada da fare ce n’è ancora un bel po’.

Ma perché quindi le donne trovano meno lavoro e con retribuzioni più basse?
Si legge nel Global Gender Gap Report 2018 che l’avvento dell’automazione sta avendo un impatto sproporzionato sui ruoli tradizionalmente svolti dalle donne. Allo stesso tempo le donne sono sottorappresentate nei settori maggiormente in crescita per quanto riguarda le prospettive occupazionali che richiedono le STEM, conoscenza e competenze matematico-scientifiche. Anche, e oserei dire forse soprattutto, in Italia. Dove il divario di genere è legato anche alla carenza di infrastrutture per aiutare le donne ad entrare (o tornare) sul lavoro, come un welfare più attento agli aspetti legati agli ambiti extra lavorativi come asili o centri di assistenza per anziani. 

Donne manager welfare aziendale

È oggi più che mai necessario incoraggiare un cambio di paradigma culturale e sociale nelle nuove generazioni e nelle politiche economiche globali su occupazione femminile, gender pay gap e servizi di assistenza. La pandemia ha evidenziato problemi irrisolti che non riguardano solo le donne, ma lo sviluppo sano ed equo di tutti: denatalità, povertà educativa, disinteresse per l’infanzia, mancata conciliazione famiglia-lavoro, insufficienza del welfare, disoccupazione femminile da un lato ma ha anche mostrato che  se possiamo lavorare da casa, sarà il caso di passare da un emergenziale home working a un virtuoso smart working. Cioè deve cambiare la concezione del lavoro ma anche e soprattutto l’organizzazione del lavoro, a tutti i livelli, facilitata dalla normativa e spinta dalle necessità competitive delle aziende e supportata da interventi economici strutturali e non a pioggia attraverso i vari “bonus”.
Un passo ormai non più rimandabile che avrà notevoli vantaggi in termini di work-life balance, benessere, produttività e competitività.

Donne manager piano nazionale di ripresa

Un’opportunità in questa direzione sembrerebbe il PNRR aka il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, il programma di investimenti che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU, lo strumento per rispondere ala crisi pandemica provocata dal Covid-19 e rendere l’Italia un Paese più equo, verde e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa.
Un insieme di azioni e interventi disegnati per superare l’impatto economico e sociale della pandemia e costruire un’Italia nuova, intervenendo sui suoi nodi strutturali e dotandola degli strumenti necessari per affrontare le sfide ambientali, tecnologiche e sociali del nostro tempo e del futuro.
Il PNNR dovrà essere predisposto entro la fine di aprile 2021 per accedere ai 209 miliardi di fondi stanziati per l’Italia, sotto forma di prestiti e trasferimenti a fondo perduto.

La parità di genere rientra tra gli obiettivi trasversali o “orizzontali” del PNRR insieme con l’accrescimento delle competenze dei giovani nonché il riequilibrio territoriale e di coesione sociale. Nulla di effettivamente mirato ad attivare una leva chiave per lo sviluppo economico: l’occupazione femminile, il principale volano per ottenere la parità di genere, magari portando al 60% il tasso di occupazione delle donne in Italia (obiettivo che doveva essere raggiunto 11 anni fa con il Patto di Lisbona).

Donne manager imprese femminili

Ma c’è ancora un ritardo importante sulla partecipazione delle donne alla vita di impresa, con implicazioni molto forti in termini economici e soprattutto sul riconoscimento di un potenziale inespresso su cui puntare per il rilancio.

Un’ampia rete di associazioni femminili ha dato vita al manifesto “Donne per la salvezza – Half of it” chiedendo alla UE il rispetto dell’articolo 23 della Carta Europea dei diritti fondamentali: la parità tra donne e uomini deve essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia disoccupazione, di lavoro e di retribuzione. A dare obiettivi per l’Italia sono state in audizione alla Camera le economiste e le studiose sociali Ladynomics, InGenere e il Giusto Mezzo . 

I dati inerenti il mercato del lavoro attualmente disponibili, infatti, indicano: i) un gap tra occupazione maschile e femminile di circa il 17% (nell’anno 2019, l’occupazione femminile si ferma al 42%); ii) un gap nel tasso di occupazione fra donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e donne senza figli; iii) un gap occupazionale a livello territoriale che vede l’occupazione femminile al Sud pari al 44,8% contro il 67,9% del nord; iv) il 55,9 % dei posti di lavoro persi durante la pandemia nel 2020 riguarda proprio le donne.

A fronte di questi dati, è di tutta evidenza l’urgenza di linee di intervento dirette e ben strutturate, sostenute da opportuni e adeguati stanziamenti economici.

Il Giusto Mezzo riporta nella sua lettera di proposte al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Governo che nella Missione 5 del nostro PNRR, alla voce impresa, sono stati stanziati “solo” 400 milioni di euro (su un totale di 12,62 miliardi) ed elencati diversi interventi molto eterogenei (“mentoring, supporto tecnico-gestionale, misure per la conciliazione vita-lavoro, campagne di comunicazione multimediali ed eventi e azioni di monitoraggio e di valutazione”) da affiancare al “Fondo imprenditoria femminile” previsto il Legge di Bilancio 2021 (che però ammonta a soli 40 milioni per 2021 e 2022). Tuttavia, la destinazione dei fondi (contributo e prestito agevolato, iniziative di diffusione dei valori dell’impresa femminile) non sembra cogliere le reali esigenze delle imprese così come emerge dall’analisi di alcuni dati forniti dal rapporto sull’imprenditoria femminile Unioncamere 2020: le imprese rosa sono meno digitalizzate (il 19% vs il 25% di quelle non femminili) e meno internazionalizzate (9% vs 13%) e le maggiori difficoltà che incontrano sono l’accesso al credito (anche perché il sistema bancario chiede alle imprese femminili maggiori garanzie reali, di terzi, di solidità finanziaria e di crescita economica), il fisco (dichiarata dal 49% delle imprese femminili), la burocrazia (37%) e l’andamento negativo dell’economia (21%).
Eppure, ricordiamolo, nonostante tutte queste difficoltà, le imprese femminili hanno particolare cura del welfare aziendale (69% vs 60% delle maschili), investono maggiormente nella sostenibilità ambientale (31% vs 26%), si concentrano maggiormente al Sud (circa il 36%) e il 12% delle imprese è guidato da giovani donne under35.

Sono tanti gli ambiti e le proposte in cui intervenire, ma alla luce di questi dati e delle azioni fino ad ora ipotizzate e messe in atto e delle proposte fatte, saremo davvero in grado di sfruttare al meglio questa opportunità di crescita?

Non è una battaglia di colore politico, ma un’occasione senza distinzione di genere.