Gli amori omosessuali non sono più un tabù al cinema. Tre film da vedere

La Settime Arte sta attribuendo un forte valore agli amori omosessuali, dando loro il giusto riconoscimento non più solo in pellicole di nicchia e indipendenti, ma anche in produzioni di un certo calibro. Sono ormai parecchi anni che queste storie di grande impatto e successo come, “La vita di Adele” e “Chiamami con il tuo nome“, giungono alle premiazioni delle più importanti cerimonie, hollywoodiane e non solo.
Gli amori omosessuali, infatti, non sono più un tabù al cinema, ed è per questo che intendiamo analizzare tre storie d’amore gay che si sviluppano attorno importanti situazioni esistenziali, facendo perno sul loro status di “anomalia”.

Danza sulla mia tomba

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Nel 1985 Francois Ozon (futuro regista del cinema francese contemporaneo), legge per la prima volta “Danza sulla mia tomba“, un romanzo di formazione dello scrittore britannico Aidan Chambers. Ne rimane talmente colpito che, quasi quarant’anni dopo, decide di farne la trasposizione cinematografica. Si occupa perciò della sceneggiatura e della regia di Estate ’85 che rispecchia la sua stessa appartenenza alla comunità Lgbt ma soprattutto le ansie tipiche dell’adolescenza.
Protagonista della storia è Alexis, un liceale che è in procinto di decidere quale volto dare al futuro imminente: meglio continuare a studiare o mettersi a lavorare?
È principalmente questo il pensiero che lo assilla per tutta l’estate che trascorre in Normandia con i genitori, appunto quella del 1985. Ed è sempre quello il pensiero che lo rincorre quando un giorno, mentre si trova in barca, viene raggiunto alla sprovvista da un forte temporale che lo ribalta in acqua. Per sua sfortuna non arriva un raggio di sole a diradare le nubi; compare invece un giovanotto che gli fa cenno di ripararsi sul suo veliero. Inizia così un viaggio alla ricerca di sé stessi e di validi motivi per amare la vita.

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Alex impara a riconoscere le sensazioni più preziose, come l’innamoramento, e quelle più angoscianti, come la natura effimera dell’amore stesso. Il ragazzo misterioso che lo salva nel temporale si chiama David: ha un passato misterioso e presto diventa il faro nella notte di Alexis. Tuttavia, l’amicizia che sboccia ha luogo in un momento delicato della vita di entrambi in cui tutto può cominciare e finire senza il minimo preavviso.

“Quando ho iniziato a scrivere la storia, nel 1966, essere gay era illegale in Gran Bretagna. Ero sicuro che nessuno avrebbe pubblicato un libro che parlava di due ragazzi che, oltre a tutto quello che rendeva proibitiva la storia, erano pure minorenni”, ha dichiarato Aidan Chambers che all’epoca aveva lavorato al libro su un arco temporale lungo quasi vent’anni, prima che lo pubblicasse ufficialmente nel 1982.

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Il film di Ozon ha conquistato Chambers al punto da fargli ammettere che “ne è davvero valsa la pena attendere di arrivare a 85 anni”. E infatti, grazie allo stile impattante e vivace del regista, siamo facilmente in grado di appurare che sono davvero notevoli le conquiste sociali e politiche rivendicate dalla comunità Lgbt in tutto questo lasso di tempo. All’alba dei “nuovi anni Venti” le persone discriminate per il proprio orientamento sessuale non si fanno scoraggiare dal bigottismo, anche se la strada verso il pieno riconoscimento dei propri diritti resta tutt’ora in salita.

Carol e la stessa freddezza del clima natalizio

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Se era complicato essere liberamente gay nell’85, non c’è da sorprendersi se amare una persona dello stesso sesso negli anni Cinquanta fosse ancora più inconcepibile.
Carol è l’impresa registica di un altro membro della comunità Lgbt, il regista Todd Haynes. Uscito nelle sale 5 anni fa, il film mostra un amore saffico che ha nei suoi presupposti la stessa freddezza del clima natalizio di New York, la città in cui prende vita. Le dirette interessate sono Carol, donna (e madre) aristocratica e Therese, aspirante fotografa con una relazione eterosessuale che non la convince.

Quando si incontrano nessuna delle due conosce il fardello più grande dell’altra: mentre Carol è in procinto di divorziare da un uomo di mentalità borghese con cui ha poco in comune, Therese lavora malvolentieri come cassiera in un negozio di giocattoli e riduce al minimo i contatti con il suo fidanzato.
La loro conoscenza procede a rilento in uno scambio di sguardi intensi e lunghi silenzi che, tuttavia, rivelano delle loro personalità più di quanto loro stesse ammetterebbero. Tanto Carol è disposta a tutto pur di difendere la sua unica figlia da un divorzio che assume sempre più i connotati di un ricatto, quanto Therese si lascia plasmare da ogni circostanza vivendo l’attimo, perché non ha idea di chi sia o cosa voglia, e insomma non dà niente per certo.

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La determinazione di Carol unita alla incertezza di Therese non sono solo specchio della differenza d’età che le separa: sono innanzitutto il riflesso di due generazioni agli antipodi, eppure legate da un insolito destino. Essere due donne lesbiche e sfortunatamente osteggiate.

Forte di una fotografia delicata e introspettiva, tendenzialmente fredda in armonia con l’ambientazione invernale, questo film mostra come le circostanze possono influenzarci, anche se a conti fatti sta a noi decidere da che parte andare. Sta a noi decidere se seguire l’istinto o tornare sui nostri passi.
Del resto, è proprio quello che Carol lascia in eredità a Therese: “l’unica cosa che puoi fare è impegnarti, usare ciò che ti piace e buttare via il resto”.

L’amaro ricordo del ritratto di una giovane in fiamme

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Forse non tutti conoscono il mito antico greco dei due innamorati Orfeo ed Euridice.
Orfeo, abile musico, un giorno perse la sua amata che morì morsa da un serpente. Non riuscendo a vivere senza di lei, decise di scendere agli inferi per tentare di commuovere gli dei dell’oltretomba sfruttando le sue doti innate. Gli dei, impietositi, acconsentirono a restituirgli Euridice ma a patto che, nel percorso per uscire dagli inferi, lui non si voltasse a guardarla. Purtroppo Orfeo, impaziente e febbricitante per la gioia, infranse la promessa condannando così Euridice al sonno eterno.
C’è però chi ha avanza l’ipotesi che sia stata la stessa Euridice a decretarne la condanna, chiamandolo lei per prima.
Ad avere questa opinione è Heloise, una ex aspirante monaca che dopo la morte della sorella torna alla vita mondana, non senza perdere l’entusiasmo della sua giovinezza.

“Ritratto della giovane in fiamme” è uscito due anni fa in un’annata alquanto prolifica per il cinema. Diretto da Céline Sciamma, vanta tra le sue protagoniste le esordienti Adele Haenel e Noemie Merlant.
Quest’ultima interpreta Marianne, una pittrice che si reca in una tenuta sperduta su richiesta di una nobile: il compito è ritrarre sua figlia Heloise.
Proprio lei, l’Heloise che un tempo aspirava alla vita delle donne religiose e che ora porta con sé una rabbia tacita. Marianne è dapprima la sua dama di compagnia, poi anche una stretta confidente e, infine, la sua amante.
Quando la padrona di casa si assenta per andare a Milano, le due giovani donne si lasciano andare a lunghe passeggiate in riva al mare, a conversazioni tese, eppure oneste, oltre alle sessioni di ritrattistica in cui si consegnano, inconsapevolmente, l’una nelle mani dell’altra.
Quei cinque giorni di intimità rimangono scolpiti nella sabbia che calpestano, nei bicchieri in cui sorseggiano il vino, nelle effusioni e negli abbracci che si scambiano dolcemente durante la notte. Così facendo, questi attimi affluiscono nell’unico atteggiamento che Marianne concede alla sua giovane in fiamme: il ricordo vivo e non il rimpianto spento.

In un’epoca come quella settecentesca, in cui non esistevano telefoni e la fotografia non era ancora stata messa a punto, serbare il ricordo di una persona era ancora compito esclusivo del cervello. La memoria era alimentata dai racconti dei tempi passati o, in questo caso, dai ritratti che legavano due persone nel loro anonimato. Non c’erano “amici di amici” a conoscenza di come si passassero le giornate, quello era ancora un segreto.

All’apparenza, lo stile registico di Sciamma può sembrare fin troppo minimalista, i colori sono gli stessi: il rosso dell’unico abito da giorno di Marianne e il verde dell’unico abito elegante di Heloise, senza contare la solita veduta per il largo della spiaggia o la scarsa attenzione alle stanze della casa, eccezion fatta per quella di Marianne e la cucina. Anche il sonoro è qui ridotto al minimo: l’unica musica ascoltata è il celebre componimento di Antonio Vivaldi “Le quattro stagioni“.

Allora qual è il merito di questa pellicola?
Intanto l’esauriente semplicità di ambienti e personaggi, bastano infatti i pochi dialoghi sensuali (e lo stesso tipo di paesaggio) a concentrare l’attenzione da un tema all’altro, come se stessimo ascoltando più i fatti che guardandoli nel loro svolgersi. L’educazione sentimentale delle due donne, oltretutto, non è sbilanciata, ma procede alla pari. Per di più, la rivisitazione di un mito in un’epoca storica successiva dà un tocco di originalità, pur affondando le radici nel passato. Il binomio di Marianne quale donna emancipata, unita ad Heloise, donna condizionata dagli altri, si esprime banalmente nei capelli bruni della prima e nei biondi della seconda; tutto questo non è banale ma segno di una caratterizzazione fatta al dettaglio e studiata con sapienza.