Perché non posso dire Ne*ro? Le risposte a tutti i vostri ma…

“Perché non posso dire Ne*ro?? È una parola italiana ed è corretto usarla per descrivere una persona nera”. Quante volte una frase del genere è scivolata nelle vostre conversazioni? Soprattutto a seguito di quel sano irrigidimento che precede un’azione di richiamo nei confronti di chi usa la Nword?
Ebbene è giunto il tempo di rispondere a questa frase usando le stesse armi, mal interpretate, di chi usa linguistica e lingua italiana per difendere un presunto diritto ad usare ogni parola presente nel vocabolario italiano.

La parola con la N* ha una connotazione più che negativa, dispregiativa, usata per definire in maniera sminuente e razzializzante le persone nere.

Perché non posso dire Ne*ro

Iniziamo dal principio, scorporiamo la parola e rintracciamone le origini

La parola veniva usata anticamente per designare il colore nero e sin dal basso medioevo per indicare le persone nere, rintracciabile anche negli scritti di Petrarca. La parola è entrata nella lingua comune in periodo coloniale a seguito della tendenza ad usare il termine spagnolo n* per indicare le persone rapite e sfruttate nella tratta degli schiavi. Dal termine derivò l’aggettivo neg*oide usato per indicare le persone nere. La dinamica del termine è chiara, nell’italiano comune, quello parlato in sostanza, il termine entra con un’accezione negativa determinata dall’equilibrio di potere per cui le persone bianche potevano identificare gli schiavi, persone oggettivate e deumanizzate, come inferiori e dunque poterli sfruttare con buona pace della loro coscienza.

Perché non posso dire Ne*ro

Anche nei primi usi, però, il termine applicato a delle persone ha sempre avuto un’accezione negativa e divisiva atta a definite l’alterità, l’altro da sé, e a restituire un ritratto positivo della società europea e bianca in contrasto con l’immagine stereotipata delle persone nere, immaginate e percepite come primitive, istintive e inferiori, dunque fatte per essere dominate. Usare il termine n* significa dunque designare una differenza di valore tra esseri umani.

La rivendicazione del termine e la censura del suo uso da parte di persone bianche risale agli anni ‘60, lo stesso Martin Luther King usava il termine nig*** per rivendicare l’uso della parola, una parola cruda e dispregiativa che solo le persone nere avevano, e hanno, il diritto di usare. Questo concetto si basa sulla riappropriazione della narrativa, ovvero privare l’oppressore di uno strumento di discriminazione e iniziare ad averne un uso esclusivo, questo significa acquisire potere su se stessi e sulla propria narrativa. Le persone nere sono le uniche a poter usare quel termine e a stabilire i limiti linguistici con cui le persone bianche possono riferirsi a loro.

Perché non posso dire Ne*ro

“Ah, ma il mio amico X i dice che posso chiamarlo n*”.

Questa è una dinamica particolarmente diffusa che più che autorizzare le persone bianche ad usare quel termine ci suggerisce quanto la nostra società sia respingente. Se una persona arriva ad accettare che chi gode di un privilegio costruito sulla sua oppressione usi uno slur, parola offensiva, significa che nella società in cui vive gli viene imposto di dover sottostare a dinamiche oppressive per essere accettato. La società bianca costruisce questa cultura dell’accettazione che scarica la responsabilità dell’accettazione sulla persona oppressa, anziché responsabilizzare chi opprime. Non sono le persone discriminate a doversi fare accettare, ma sono le persone che discriminano a doversi educare e imparare a condividere lo spazio del rispetto.

Se l’argomentazione non vi convince, c’è una sentenza della Corte di Stato Francese che può aiutare a chiarire il concetto, il caso in esame riguardava la spettacolarizzazione di una persona con nanismo in un evento in un comune in provincia di Lione, vietato dal sindaco in quanto lesivo della dignità della persona. La persona in questione e il locale hanno impugnato la causa, una volta giunti alla Corte la sentenza è stata chiara e ha ribadito che una persona non possa rinunciare ai propri diritti umani. Il fatto che un individuo accetti un comportamento denigratorio non rende il comportamento giusto, non sgrava chi lo pone in essere dalla responsabilità di aver agito ledendo la dignità di una persona e non cancella il valore sociale del comportamento. Un amico che accetta di farsi chiamare in un certo modo può farlo per mille motivi, ma non vi autorizza ad usare quel termine per rivolgervi alle persone nere.

“Però è un limite alla libertà di parola”.

Il concetto della libertà di parola in Italia è spesso molto nebuloso, offuscato nella sua limpida chiarezza da una retorica politica razzista e populista. La libertà di parola è un diritto umano e inalienabile, che trascende persino l’ordinamento italiano e che determina la possibilità per una persona di esprimere ciò che pensa in maniera libera. La libertà di parola, però, incontra sempre il limite della libertà altrui, essa non può essere usata per aizzare la violenza, perpetrare odio razziale e religioso, discriminare e ledere ai diritti umani. Dunque siamo liberi di esprimere un’opinione, un pensiero o un’opinione politica, ma non di insultare e di farlo usando una parola razzista. E i diritti umani, nonché la stessa dignità umana, non sono opinabili.

Perché non posso dire Ne*ro
Illustration by Susana Gómez Báez

“Secondo me ci sono problemi più grandi”.

Uno dei problemi maggiormente diffusi nelle società di tutto il mondo è la diseguaglianza basata sulle discriminazioni. Pensare che il linguaggio non abbia valore rispetto ad atti di violenza fisica o discriminazioni legislative significa non avere idea di cosa sia effettivamente il linguaggio. Le parole sono il mezzo con cui comunichiamo, con cui costruiamo cultura, strutture e sovrastrutture sociali. Le parole contano, le parole emancipano, le parole cristallizzano situazioni discriminatorie e pongono le basi per altre forme di violenza sistemica.

“Ma non mi dirai mo che Petrarca era razzista o che tu ne sai più di Petrarca sulle parole”.

Petrarca è morto nel 1374. Petrarca scriveva: “Veggio senza occhi e non ò lingua e grido…”, incipit del sonetto “Pace non trovo et non o da far guerra”. Eppure nelle scuole impariamo a mettere le H davanti alle O per indicare il verbo avere, altrimenti si chiama errore grammaticale, impariamo anche a coniugare vedo e non veggio. La lingua italiana evolve e muta integrando significati e contesti, riflesso della società e della sua evoluzione.

“La lingua italiana è sacra”. Magari dillo a Mediaset, non a chi chiede di non usare parole offensive e discriminatorie. Ma parliamo di linguistica e interpelliamo Saussure. Ogni parola è costituita da un significante, l’insieme fisico di ciò che compone la parola, suono, lettere etc…, da un significato, quindi il senso che la parola vuole restituire e da un referente, ovvero l’entità a cui si fa riferimento.
Il significato è il concetto che la parola porta con sé, che non è statico e si arricchisce di sensi, può essere assoluto e indicare un elemento generale o declinato in un’accezione specifica. Le parole non sono segni statici su menti inerti che devono ripetere tutto ciò che sentono per imitazione, ma sono elementi dinamici che si caricano di significati storici, sociali e culturali capaci di produrre una comunicazione sempre più ricca. Inoltre lo stesso processo di selezione delle parole è un’azione attiva e non passiva. L’essere umano è capace di modificare registro linguistico a seconda dei contesti e delle dinamiche in cui si esprime. È quindi fondamentalmente capace di non usare una parola se sa che arreca offesa.

“Io mica voglio offendere”.

Come il buon Manzoni ha scritto e come la scuola italiana ha provato ad inculcarci “non è l’abito che fa il monaco”. Non sono le intenzioni a fare la persona, ma il modo in cui agisce in conseguenza di tali intenzioni. Se l’intento non è offendere allora perché usare una parola che è riconosciuta come offensiva e oppressiva? La risposta onesta a questa domanda è che si tratta di un piccolo esercizio di potere. La cultura dominatrice ripropone i suoi schemi per non doverli cambiare e per affermare il suo diritto a poterlo fare.

“Non sono razzista”.

L’uso da parte di una persona non razzializzata di una parola razzista è una delle molteplici forme di razzismo. Per non essere razzisti bisogna disimparare le strutture e gli schemi di pensiero razzisti che abbiamo assimilato e riprodotto nel tempo a causa della cultura razzista in cui siamo immersi.

“Ma anche loro lo dicono!”

Il fatto che le persone nere usino quel termine non è un suo sdoganamento. Si tratta invece di una rivendicazione, di una riappropriazione e di un’assunzione di potere nei confronti di una società discriminatoria e razzializzante. L’uso di tale parola assume connotazioni e valori diversi in funzione di chi la pronuncia. Una persona bianca che usa la Nword sta commentando un atto di razzismo, una persona nera che la usa sta dominando e castrando una forma di oppressione.

“Io mica mi offendo se mi danno del bianco”.

Per una persona non oppressa, leggere e interpretare le oppressioni è difficile, poiché spesso si rischia di farlo indossando i panni altrui, ma pur sempre in posizioni di privilegio. Ciò che serve è un esercizio di empatia, dunque ascoltare e sentire le parole di chi, invece, è sistematicamente oppresso e capire l’impatto che ciò che non si considera dannoso abbia in realtà. Non è immaginando la situazione inversa che si può percepire il problema, ma osservando la realtà dei fatti e percependo il dolore altrui.

Se una parola viene considerata oppressiva da chi è descritto/ colpito/ stigmatizzato/ indicato/ definito/ incasellato/ stereotipato/ insultato con quella parola, significa che quella parola è oppressiva. Una parola può generare oppressione e sofferenza, una sofferenza collettiva, storica e diffusa. Quand’è che ha smesso di contare la consapevolezza che una parola possa ferire, discriminare, colpire, sminuire e marginalizzare? Nel momento in cui quelle parole sono state usate per opprimere qualcuno.

Insomma, fino al I secolo d.C. si scriveva sulle tavolette di pietra, dunque dovreste scrivere messaggi sui sassi anziché usare gli smartphone? E sapendo che lanciare un sasso ad una persona è pericoloso e fa male, lo lanciate lo stesso?

Perché non puoi dire Ne*ro? Perché è sbagliato ed è razzista.