Lo straniero di Camus torna al cinema per la regia di François Ozon, in concorso a Venezia 82

Con l’eleganza che lo contraddistingue François Ozon si confronta con due giganti, quello di Albert Camus autore de Lo straniero e Luchino Visconti che diresse Marcello Mastroianni nei panni del protagonista nel film del 1967
L’adattamento di Ozon rispetta l’opera originale, inserendovi la sua estetica riconoscibile nonché la tipica sensualità e bellezza dei personaggi da lui diretti. Il regista, noto per il suo stile estetico e tagliente infatti, sembra voler tradurre in immagini l’essenza filosofica del romanzo, mantenendo l’alienazione e l’assurdo centrali nell’opera di Camus. Il nichilismo del protagonista è il filo rosso che conduce la narrazione in una storia che somiglia un po’ all’Eclisse di Antonioni, o in ogni caso ai suoi film della trilogia dell’incomunicabilità.
Fin dall’inizio, Ozon non nasconde la tensione che questa trasposizione comporta: il distacco di Meursault, la “dolce indifferenza del mondo” e il silenzio carico di senso del protagonista sono temi difficili da trasferire al cinema senza cadere nella noia. Eppure, rivedendolo con lo “sguardo del presente”, Ozon ci fa capire che questo romanzo non è affatto un reperto scolastico, ma una lente attraverso cui interrogare ancora il nostro tempo. A ben pensarci anche questi sono anni in cui incomunicabilità e un certo livello di apatia sembrano prevalere. Basti pensare al distacco emozionale generato dai rapporti digitali.
Convincenti anche le scelte formali: la pellicola è girata in bianco e nero, una decisione che nasce, secondo lo stesso Ozon, da un’immediatezza visiva che richiama ricordi in bianco e nero, e si adatta alla natura filosofica del testo. È una scelta che promette di amplificare il distacco e il silenzio, proprio quel silenzio che parla più di qualsiasi commento.
Benjamin Voisin interpreta Meursault con la giusta ambiguità: un ragazzo tra i trent’anni, impiegato modesto, che affronta la morte della madre – e poco altro – con un’insolita immobilità emozionale. Al suo fianco, Rebecca Marder è Marie, mentre Pierre Lottin e altri attori arricchiscono il cast, in una vicenda che si svolge con lenta tensione fino all’omicidio (annunciato a inizio film dallo stesso protagonista) e al processo di Meursault.
Nella regia e nell’interpretazione lo specchio dell’interiorità del protagonista
Ozon costruisce il racconto con un ritmo volutamente rarefatto, che rispecchia la condizione interiore di Meursault. La macchina da presa osserva, registra, quasi con la stessa freddezza con cui il protagonista affronta gli eventi della sua vita. È un cinema che mette lo spettatore davanti a uno specchio, costringendolo a misurarsi con l’indifferenza e con l’assurdo, come si è detto ancora molto attuali.
Il bianco e nero, lungi dall’essere un vezzo estetico, diventa linguaggio morale: i contrasti di luce e ombra traducono sullo schermo la dialettica esistenziale tra presenza e assenza, vita e morte, senso e vuoto. Il risultato è un film che sembra scolpito più che girato, dove ogni immagine pesa come una sentenza. Rispetto alla versione di Visconti, che portava con sé un respiro più melodrammatico e una forte impronta italiana, Ozon si muove in sottrazione, affidandosi a una recitazione trattenuta e a un’estetica che ricerca l’essenziale. In questo modo Lo straniero del 2025 non è un semplice rifacimento, ma un dialogo a distanza con due padri ingombranti – Camus e Visconti – che il regista affronta senza timore reverenziale, trovando una sua voce.
Il film si chiude senza offrire soluzioni né facili consolazioni. Al contrario, lascia addosso la stessa inquietudine del romanzo: la consapevolezza che il mondo procede indifferente alle nostre speranze, e che proprio in quell’indifferenza può annidarsi una forma di libertà.