Silent Friend, l’enigma di Ildikó Enyedi tra filosofia, natura e silenzi che inquietano | In corsa a Venezia

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Tony Leung e un ginkgo millenario al centro di un film che divide per radicalità e lirismo.

Ci sono opere che sembrano nascere già sapendo che divideranno il pubblico. Silent Friend, ultimo lavoro della regista ungherese Ildikó Enyedi, è una di queste. Presentato in concorso, il film mette al centro della scena non un eroe né un conflitto tradizionale, ma un albero: un ginkgo secolare che diventa testimone, simbolo e custode di storie che si intrecciano intorno a lui.

La scelta narrativa è rischiosa e affascinante. L’albero non è solo sfondo, ma protagonista silenzioso di un racconto che alterna episodi, epoche e personaggi diversi. Tra questi spicca il volto magnetico di Tony Leung Chiu-wai, che porta con sé il peso del tempo e dell’esperienza, incarnando un uomo che osserva, ascolta e si lascia trasformare dalla presenza del ginkgo.

Non c’è una trama lineare: Enyedi costruisce un mosaico di situazioni che spaziano dal quotidiano al metafisico. Lo spettatore è invitato non a seguire una storia, ma a perdersi in un’esperienza sensoriale fatta di immagini, suoni e riflessioni filosofiche. Un cinema che rinuncia alla narrazione tradizionale per abbracciare il mistero e la contemplazione.

Tony Leung e la forza dei silenzi

Il casting di Tony Leung si rivela vincente. L’attore non interpreta un ruolo di azione, né un dramma psicologico convenzionale: la sua forza sta nella capacità di restare, di incarnare il silenzio e l’ascolto. La sua sola presenza diventa carisma, un ponte tra lo spettatore e l’universo enigmatico del film.

Attorno a lui si muovono altri personaggi, ma sempre come satelliti dell’albero. Le vite umane appaiono effimere rispetto alle radici millenarie del ginkgo, e questa sproporzione è al centro della riflessione filosofica che Enyedi porta avanti: l’uomo è passeggero, la natura resta.

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Poesia o esercizio di stile?

L’estetica di Silent Friend è indiscutibilmente raffinata. La regista lavora su una fotografia che alterna il chiaroscuro delle stagioni a inquadrature che si soffermano sui dettagli delle foglie e dei rami. Il ritmo è lento, volutamente ipnotico, pensato per immergere lo spettatore in uno stato meditativo.

Eppure, non mancano i rischi. Alcuni momenti sfiorano l’autocompiacimento visivo, con sequenze che si dilatano a tal punto da minacciare la concentrazione dello spettatore. È un film che richiede disponibilità e pazienza: chi cerca un racconto tradizionale rischia di rimanere disorientato, se non respinto.

Silent Friend è un’opera radicale, che si muove tra filosofia e poesia, tra contemplazione e provocazione. Non un film da guardare distrattamente, ma un’esperienza da accogliere come un rito, con la consapevolezza che non tutti ne usciranno convinti. Per alcuni sarà un viaggio ipnotico, per altri un esercizio eccessivamente astratto. Ma proprio in questa polarizzazione risiede la sua forza: ricordarci che il cinema, a volte, può ancora essere mistero e meditazione.